giovedì 15 maggio 2008

camminante

Guardo la gente che mi cammina a fianco. Sembriamo in gita così vicini e veloci. Abbiamo tutti la stessa cavalcata spiccia e ci muoviamo in sincrono come una scolaresca, anche se nessuno ride e nemmeno ci si parla. Siamo degli sconosciuti educati e manteniamo le distanze, sebbene ci si sfiori gomito a gomito. Però è lecito guardarsi la schiena gli uni con gli altri. Cerco di indovinare i volti oltre quelle spalle ondeggianti, oltre gli zaini e le borse di coccodrillo. E’un esercizio fine a sé stesso, non avrò mai conferma delle mie fantasie. Siamo tutti ombre leggere. Operai e commesse e studenti, badanti, imprenditori, casalinghe, dentisti e muratori. Tutti mi scivolano vicino come vento e non mi toccano. Quando si arriva all’incrocio davanti alla stazione siamo sempre in troppi a voler attraversare. Stiamo schierati ai due lati della strada come eserciti pronti allo scontro, da una parte chi è appena sceso dal treno, dall’altra chi si affretta per salirci. Il semaforo è rosso e noi ci guardiamo in faccia. A tranciare i nostri sguardi lampano e stordiscono le automobili in corsa. Quando scatta il verde, ma spesso anche prima che scatti, iniziamo a muoverci incontro dalle rispettive postazioni. Li vedo compatti arrivarmi addosso e aspetto l’impatto. Stringo le spalle per assorbire il colpo e guardo l’asfalto. Avanzo a piccoli scarti per non intralciare le traiettorie dei miei compagni anonimi compagni di marciapiede. Aspetto l’urto e l’urto non arriva mai. I guerrieri dei due schieramenti si corrono incontro, si infilano gli uni negli spazi vuoti lasciati dagli altri, le fila si frangono. Ci si compenetra e ci si oltrepassa. Dello scambio mi rimane addosso il vento.

lunedì 5 maggio 2008

il signor enzo

Cammino a Trieste nella notte precoce. Le sette di sera di aprile e le strade sono già viola. Incroci e semafori. Più semafori che incroci verso la stazione dei treni. Via Battisti e Via Carducci, passando per Piazza Oberdan, che mi è sempre sembrato un bel nome da ascoltare in città. I passi scendono al suolo con cadenza zingara, disinteressata, senza piglio e senza lena ma regolari. Un avanzare ritmico e rassegnato, distratto nel respiro, l'aria ancora fredda. Perchè non ho fretta. Sono quasi arrivata ma scarto a sinistra. Niente treni stasera che lavoro davanti alla stazione, ma se ho fortuna passerà in pizzeria il Signor Enzo, che coi treni ci lavora ed è tra i pochi clienti a cui sorrido anche quando non mi guarda. Il Signor Enzo è magro e alcolizzato e per questo gli si riserva sempre il tavolo peggiore, incastrato vicino alla porta. Ogni tanto proprio si annoia, o non ha voglia di piegarsi solo sulla tovaglia. Allora ride e si alza, scherza e offre a me e alle cameriere dei cioccolatini. Io gli guardo i denti, le guance abbronzate e ruvide di tabacco e cerco di trattarlo bene, uso i miei occhi migliori per salutarlo e ringraziarlo. Mescolo tutto dentro gli occhi, comprensione e condivisone, istintiva vicinanza.
Non voglio permettermi troppe confidenze con lui. E' il mio cliente preferito e io sono la sua barista. Chissà se passerà stasera.
Sto ancora camminando.

giovedì 1 maggio 2008

la pesca dei tonni

E' quasi ora di cena. Il soggiorno è in ombra ma sulla tavola apparecchiata piove il sole dal lampadario. Uno di quegli oggetti che si trascinano di casa in casa, e che non riescono mai a sentirsi a loro agio. Una grande scodella di vetro opaco e un bordino di plastica rossa, un sostegno a spirale dovrebbe regolarne l'altezza, ma non l'ho mai visto contratto. Sempre appeso molle e rilassato, per nulla integrato agli altri mobili della cucina.
E'una serata allegra. Di quelle in cui facciamo finta di interessarci agli altri, in una famiglia che di familiare ha forse giusto l'odore di polvere di mio padre, quando torna dal lavoro. Ci interroghiamo in domande di cui non ascolteremo le risposte, per farci contenti. Ma non sono importanti le risposte. Siamo tutti consapevoli dell'artificiosità del meccanismo, e tutti entusiasti comunque. La sincerità non è necessaria quanto l'impegno.
La televisione è accesa, trasmettono un servizio sulla pesca dei tonni in Giappone. Sale la nonna dalle scale, saluta e appoggia le pentole che regge in mano. Ogni sera lei sale con le pentole e ogni tanto sono vuote ma più spesso ci si trova dentro la cena. Adesso è ora di cena. Con una lama i pescatori giapponesi aprono il fianco di un tonno. Orgogliosi mostrano alla telecamera le carni nere del pesce. Nere. Mia nonna non si capacita di quel colore e la sua meraviglia mi piace, me la fa sentire più vicina. Di solito le sue parole rotolano affaticate e amare. Si può avere una nonna amara? Ecco che gli attimi in cui spalanca gli occhi ed esclama diventano preziosi. Un punto esclamativo infantile invece dei soliti puntini di sospensione, invece di quel punto fermo che nella sua bocca rimbomba freddo, perentorio come una condanna a morte. E magari sta solo commentando il tempo.
Mio papà è pescatore e dice che è normale che quelle carni siano nere. Io gli domando come mai nelle scatolette diventino rosa. E glielo chiedo per avere una risposta. Potrebbe essere la solita domanda spintarella, inventata lì per lì solo per farlo parlare, farlo sentire bene, e invece io voglio sapere come mai i tonni cambiano di colore. Lui mi guarda, alza le spalle e allarga le braccia ma come trattenendosi. Dura meno di niente la sua espressione, una sorta di vago sbuffo d'impazienza, e si pone esattamente a metà tra il "non ne ho idea" e il "come non lo sai?", indecifrabile.
Rinuncio a qualsiasi altra spiegazione. Ci sediamo sotto il lampadario, nella luce, a mangiare.