mercoledì 5 novembre 2008

epifania

Sto sistemando le coperte nell’armadio sopra il mio letto. Ho i piedi nudi mezzo affondati nel materasso e piego il piumino, lo arrotolo alla meglio e lo lancio tra le ante aperte, sperando che cada quasi compostamente sulla pila delle lenzuola. Ho ancora i muscoli intorpiditi dal vino, gli occhi gonfi che sembrano bruciare le palpebre. Addosso i pantaloni caldi della tuta, un golfino da uomo sformato e troppo grande. Il post-sbronza: vestiti comodi e brutti, latte e yogurt, tutto il bianco e il dolce del mondo per purificare la lingua, lo stomaco, sentirsi puliti dentro quando ancora i movimenti sono lenti, le labbra secche che si attaccano ai denti. La casa è vuota e silenziosa, io penso a mio padre e a ieri sera. Attraverso le finestre sento il rumore sfocato di un automobile che rallenta e imbocca il vialetto. Non ho voglia di scendere dal letto e affacciarmi alla finestra, non ho voglia di sapere chi sia arrivato. Continuo a piegare le coperte. Ieri sera ho riso e chiacchierato (di cosa poi? ora non ricordo ma di certo ho parlato acida a vanvera per tutta la sera), ho anche rotto la macchina fotografica nuova. Mi è cascata dalle mani mentre cercavo, camminando e ridendo come un serpente, di fotografare me e Mario assieme. A guardare le foto rimaste c’è da vergognarsi: la mia faccia bianca è spaventosa sotto il colbacco lucido di pelo, contorta nel ghigno dell’ubriachezza, gli occhi rossi e azzurri e le labbra screpolate dal freddo. Ogni scatto un abbraccio diverso, in uno mi ritrovo ad abbracciare un omaccione biondo, un folletto gigante, con gli occhi tagliati sottili e i baffetti rossicci. Indossa il grembiule giallo da cuoco sopra un giubbotto blu da cantiere e mi tiene per le spalle. Io sorrido un sorriso storto. E’stato bello vedere la foghera, la carcassa di sterpi e paglia bruciare alta nel cielo basso di gennaio, il fantoccio della vecchia nel fulgore dei lapilli, nel frastuono dei petardi e della banda che suonava. L’epifania è sempre la mia festa, quest’anno probabilmente ancora di più. Mi sarebbe piaciuto bruciare me stessa dentro quel rogo di campagna, accartocciarmi nella polvere per rinascere come l’araba fenice. Ho potuto solo bere il vino, troppo vino, e mangiare con le mani sporcandomi le guance di unto, stendere il viso al calore del fuoco e chiudere gli occhi. Immaginare che veramente qualcosa si stesse consumando dentro quel pignarul arrangiato nel fango, che veramente qualcosa stesse morendo là dentro gli scoppi e le fiammate nervose. Quasi tutte le baracche che servivano da mangiare avevano chiuso dopo qualche ora, ma quella delle grappe resisteva. Sono tornata a casa che erano le quattro di notte e sull’argine del fiume c’era ancora gente.
Verso le sei, dovevano essere le sei e mezza, mi sono alzata dal letto perché avevo sete. In cucina ho incontrato mio padre e ora non ricordo precisamente cosa disse, ma non ha granché importanza, la solita litania funebre che balbetta da un mese a questa parte, da quando mia madre se n’è andata di casa. Io non ho voluto ascoltarlo: l’avevo già ascoltato abbastanza e non condividevo nessuna delle sue lamentazioni, l’avevo già fatto piangere addosso al mio pigiama la mattina del primo dell’anno. Erano le sei di mattina, io ero a letto da nemmeno due ore e volevo dormire. Come se mi fossi imbattuta in un ombra o avessi intravisto un riflesso allo specchio, l’illusione di una persona, non ho nemmeno accennato una risposta ai suoi guaiti e me ne sono tornata in camera. Ho dormito immobile e pesante come credo debba dormire dio, la coscienza sparsa dappertutto attorno a me, sui cuscini e per terra, tra le pieghe dei vestiti sporchi, per restarmene ferma e sola e senza sogni.
E’stata mia nonna a svegliarmi poche ore dopo. Lei e il nonno abitano nell’appartamento sotto il nostro, niente chiavi, niente formalità, niente privacy, soprattutto adesso che il povero miserrimo padre è stato vilmente abbandonato a sé stesso. La nonna si è seduta sul letto, vicino a me e alla mia inconsistenza, al mio odore di vino. Mi ha scosso piano con le sue mani fredde e dure, mi ha raccontato nel buio quel poco che sapeva: il messaggio di mio padre, le calze della befana. Mi sono alzata e vestita, ho cercato di capire. Nella mia famiglia il sei gennaio si continuano ad appendere sulla stufa le calze imbottite di liquirizie e carbone dolce, non importa se io ho ventitre anni, mio fratello ventuno. Ogni anno che passa ho paura che mia madre si scordi di questo piccolo rito, o che ormai ci creda abbastanza adulti da poterne fare a meno, ed ogni anno ritrovo ad aspettarmi in soggiorno la calza gonfia di caramelle. Stamattina non è stata mia madre a preparare la sorpresa, lei non è nemmeno più in Italia. E’ stato mio padre: dalla stufa in ghisa pendevano due calze colorate, una arancione per me e una blu per mio fratello, e un bigliettino: “Per L. e M.: questo mondo non è per me”. Che accento drammatico! Che eufemismo ridondante, quanta teatralità e capacità retorica di terz’ordine! Non sono riuscita a impedirmi un primo moto sarcastico, sprezzante. Avrei dovuto scoppiare in singhiozzi, strapparmi i capelli dal dolore, graffiarmi la faccia ancora addormentata con le unghie rosicchiate? Nell’insieme l’intera situazione sembrava abbastanza squallida e ridicola da poter essere reale, ma non me la sono sentita di calarmi nel ruolo tragico di figlia orfana inconsolabile. Non riuscivo a prendere sul serio la recita alla quale tutti gli altri invece partecipavano con grande sforzo espressivo e mi sentivo, mi sento, inumana. Ero ancora stizzita dall’incontro delle sei di mattina, dall’egocentrismo fanatico di mio padre e dal suo vittimismo fagocitante da cui nessuno, evidentemente, sarebbe potuto fuggire. Non riuscivo a pensarlo morto, lo pensavo ancora come il grande attore patetico. Ho cercato di tranquillizzare mia nonna, le ho offerto un the caldo, come nella migliore sit-com inglese ho provato a risolvere tutto mettendo a bollire un po’di acqua sul fornello e fingendo la normalità. Ho abbracciato mio nonno che piangeva e non l’avevo mai visto piangere, lui che sembra sempre saldo e inamovibile come un grasso carro armato, la pancia tonda e compatta a proteggerlo da qualsiasi pensiero che non sia il suo. Mio fratello intanto telefonava ai carabinieri e spiegava l’accaduto singhiozzando. Io non ho pianto. Io mi sono scottata la pelle in piedi e impassibile sotto la doccia bollente, quasi anche quello potesse servire a migliorarmi un po’, a togliermi di dosso la sbronza e tutto il male di me stessa e della giornata appena iniziata. Ho indossato la tuta comoda, ho mangiato un po’di yogurt, freddo di sollievo sulle labbra, e ora sto sistemando le coperte nell’armadio. L’automobile che sento entrare in cortile potrebbe essere quella di mio padre, o quella di mio fratello uscito per cercarlo, o quella dei carabinieri. Non voglio saperlo. Non voglio uscire in giardino correndo, non voglio recitare la parte che lui sta cercando di impormi. Me ne sto qua tranquilla a piegare il plaid scozzese.
I carabinieri ci telefonano che è quasi ora di pranzo. Mia nonna evidentemente ha apprezzato la finzione del the perché ora sta apparecchiano la tavola, nella pentola è pronta la pasta al pomodoro (ho fatto una cosa semplice, quello che avevo in casa), ma io e mio fratello stiamo uscendo di casa per andare al fiume. Non parliamo, lui guida nelle strade vuote della pineta. La macchina dei carabinieri è ferma poco lontano dalla foce. L’hanno ritrovato che stava sul faro. Cammino verso mio padre: lui è vestito con gli abiti della domenica, tutto di nero con gli stivaletti di pelle. Io non ho nemmeno portato la giacca e lo abbraccio nell’aria fredda. Me ne sto un pochino, poco, a respirare nel suo maglione troppo profumato e attorno tutto è verde e grigio, gli alberi e il cielo, l’asfalto e il fiume, il mare in lontananza. Poi tocca a mio fratello, che lo abbraccia con la bocca contratta, attento a trattenere le lacrime. Lo spiazzo dove ci troviamo è il fondo cieco di una strada sconnessa, frequentata d’inverno solo dai pescatori, deserta in un giorno di festa. Ci siamo solo io mio fratello mio padre e i due carabinieri. Loro mi fanno cenno di allontanarmi dal gruppo, io li seguo. Mi parlano di dove l’hanno trovato, delle loro impressioni, ci scambiamo i numeri di telefono per tenerci informati non si sa mai, mi chiedono se ho armi in casa. Fucili da caccia rispondo. Devo farli sparire per un po’. Va bene, non c’è problema.
Decidiamo che mio fratello tornerà a casa da solo, io in auto con mio padre. Gli tremano le mani, le guardo anche se cerco di non farmi scoprire in atteggiamento difensivo, ma arriviamo a casa sani e salvi e i pianti di gioia di mia nonna gli ammonimenti il nonno sembra svenire è felice non ci crede l’avevano tutti già dato per morto.
Nel pomeriggio io e lui chiacchieriamo sul divano, nelle luci intermittenti dell’albero di natale. Continua a balbettare che siccome lui aveva mangiato dei pesci voleva che i pesci mangiassero di lui. Un idea romantica posta a capo di una serie di idiozie. Io lo ascolto e cerco di non contraddirlo troppo. Beviamo del whisky e brindiamo a noi e alla fine riusciamo anche, istericamente, a ridere.