giovedì 31 dicembre 2009
novembre lontanissimo
tra natale e l'ultimo
lunedì 16 novembre 2009
domenica 15 novembre 2009
running to stand still
E'una settimana che ascolto canzoni sentimentali e popolari. Recupero i classici e le ballate, i pezzi lenti e commoventi e le canzonette tardoadolescenziali. Non mi arrendo di fronte a niente, e dopo esser passata attraverso Vecchioni e Mietta, e i Lunapop e Ivan Graziani, e altri e altri ancora, sono arrivata a una vecchia cassetta degli U2, un misto di vari album che una volta ascoltavo prima di addormentarmi, quando ero sedicenne e triste. Ho ritrovaro una delle canzoni preferite della mia autocommiserazione: Running to stand still. Ho sempre ignorato il testo, mi bastava il titolo. Ieri l'ho riascoltata, indaffarata in cucina e credo serena, e mi sono resa conto di quanto poco sia cambiato in me rispetto quei tempi. Stessa autocommiserazione piagnucolosa, stesso sentimento di impotenza e vigliaccheria. Probabilmente ragiono in questi termini perchè si appresta capodanno (o la tesi, ma preferisco pensare a capodanno), ed evidentemente ho bisogno di metabolizzare, mandare giù qualcosa. L'altro ieri mattina ero stanca e acida di vino cattivo, non volevo studiare e mi sono ritrovata a sistemare la posta del 2005. Leggiucchiavo qua è là e brani di lettere, archiviando e ordinando. Ho riscoperto cose che non ricordavo, e soprattutto un commento di Dario, un amico che non frequento più da quella volta, e che mi scriveva: tanto lo so che cadi sempre in piedi. E' anche banale, ma aveva ragione allora, e oggi pure e probabilmente avrà ragione per sempre: cado in piedi, ma non so più mi basta.
Ci sono alcune cose in cui credo: credo che non bisogna essere tutti artisti, che non sia naturale. Credo che non per forza si abbia qualcosa da dire. Credo che l'ambizione intellettuale nasconda il più delle volte il bisogno di essere riconosciuti e apprezzati, e che gli sforzi di molti in questa direzione siano motivati alla base da esigenze più basse e viscerali, siano implicite richieste di attenzione. Credo che per raggiungere il protagonismo siano necessari dei compromessi a cui non intendo partecipare, credo di non avere bisogno di gratificazioni di questo tipo e di poter vivere serena e forte e bastante a me stessa. Giuro, credo a tutto questo, eppure ho paura di mentire. Ho paura di usare questi punti fermi per vietare a me stessa di osare, di rischiare. Me la caverò sempre, e cadrò sempre in piedi come scriveva Dario. Ma è questo quello che voglio? Ogni tanto mi sento semplicemente troppo spaventata e vigliacca per affrontare i miei desideri e il mondo. Sto correndo ma rimango ferma, mi affatico e passano i giorni, ma non cambia mai nulla dentro me, perchè non riesco e forse non voglio impegnare me stessa in sfide troppo grandi. Ho paura di perderle, e di dovermi ricostruire da zero. Prima o poi dovrò affrontare questo nodo: sedermi e pensare.
giovedì 8 ottobre 2009
mercoledì 23 settembre 2009
al telefono
mercoledì 2 settembre 2009
idiosincrasie. parte seconda
lunedì 31 agosto 2009
idiosincrasie. parte prima
Cercherò di riassumere, per spiegarmi a me stessa. Di solito le mie idiosincrasie si sviluppano singole, chissà che a disporle tutte assieme, tutte vicine, non si riesca poi a tratteggiare un ritratto, a unire i puntini e a scoprire qualcosa che non so. (ovvio: se quello che scopro è brutto cancello il post, ci metto niente)
Io odio: i ciccioni, i grassi, gli obesi giganti. Perchè mancano di autocontrollo, perchè non vogliono essere felici, perchè sono brutti e informi, perchè non hanno disciplina e si inventano i disturbi ghiandolari. Sottocategoria che odio ancora di più: i bambini ciccioni. I bambini non possono essere grassi: i bambini corrono, giocano, metabolizzano. Devono avere le ginocchia aguzze e i gomiti sbucciati. Non possono essere farciti come tacchini. Odio i bambini ciccioni non solo perchè sono innaturali e sgradevoli da vedere, anche perchè sono antipatici. Di solito il sovrappeso li induce a sentirsi diversi, a restarsene un po'isolati o a svillupare sentimenti di invidia, timidezza saccente... Gli unici ciccioni che apprezzo sono i vecchi.
Io odio: gli studenti di Bologna, ma non tutti, nello specifico odio la fauna che popola il 36 e bivacca in piazza verdi. Li odio perchè sono vuoti e truccati, perchè sono tutti talmente diversi da finire inevitabilmente tutti uguali, perchè sono politicizzati e non sono capaci di lavorare, perchè occupano e "reclamano reddito", ma l'affitto lo pagano i genitori e poco importa se per occupare e partecipare alle manifestazioni l'università finisce per durare dieci anni. Li odio perchè non dicono niente, perchè sono gentili e amici di tutti e invece io li odio e loro mi odiano, perchè ascoltano tutti la musica "giusta" e non sono capaci di essere se stessi. Li odio soprattutto perchè si prendono sul serio. E perchè non capiscono le mie battute, e mi guardano strano se ascolto Tiziano Ferro (la Carrà invece ora va bene, sarà un annetto che ha iniziato a reinserirsi nella "musica giusta"). Li odio perchè sono prevedibili e anonimi, nonostante tutti i loro sforzi per emergere.
E poi? Ah sì, poi odio le commesse delle profumerie, i loro atteggiamenti da sacerdetosse. Loro sono le vestali della suprema conoscenza estetica e cosmetica, tu che gli domandi il prezzo del flacomincino piccolo di Bulgari sei e rimarrai per sempre l'ultimo e il più volgare dei mortali. Odio.
Odio tutte le ex dei miei passati, presenti e futuri ragazzi/morosi/mariti (?). E' una campagna che porto avanti da sempre. Loro sono il male, le nemiche, specie se hanno più tette di me. Ringhio quando le vedo passare, e poi a casa improvviso una makumba per esorcizzare la loro presenza. Odio Blerina, la mia ex coinquilina albanese... ma questa storia sarebbe veramente troppo lunga.
Odio le persone che, mentre sto fumando, mi ricordano che fumare fa venire il cancro, la scabbia, i denti gialli e soprattutto la morte. Sono indelicate e inopportune.
Odio le ragazze del sud che devono fare per forze le ragazze-del-sud, e ballano la taranta a piedi nudi e scuotono i ricci selvaggi, e cucinano impastandosi ben bene le mani perchè essendo del sud sono automaticamente passionali e carnali, e quindi visceralmente legate alla terra e alla materia, madri primordiali che plasmano e infornano. Non se ne può più. Odio anche il Salento tutto e la pizzica. Qualche anno fa del Salento anche me ne fregavo, a mala pena sapevo dove fosse, e la pizzica non mi disturbava. Poi è iniziata la colonizzazione, l'infestazione, non c'è stata più festa estiva senza annesso gruppetto di saltellatori idioti (che sono gli stessi del 36, e ovviamente si scuotono a casaccio con la destrezza che non hanno mai), non c'è compagnia di giovani-alternativi-bene che non abbia fatto le sue brave vacanze in Salento. Veramente non se ne può più.
E ora abbandono il post, riprenderò la prossima volta. Il ritratto è ancora lungo a venire.
giovedì 6 agosto 2009
pomeriggio qualunque
martedì 30 giugno 2009
trentaseiduemilaenove
domenica 5 aprile 2009
Io sono il mio corpo
lunedì 9 marzo 2009
F.
martedì 10 febbraio 2009
Omaggio (kitsch) a Sei Shonagon
Staccare dalla parete della cucina il calendario brutto della Cassa Rurale del Polesine (al quale ci si era rassegnati controvoglia) e appendere al suo posto il calendario di carta e listelle di bambù, regalatoci dal proprietario del Drago d'Oro. E' leggero e colorato male, le tabelline dei mesi sono stampate attorno alla ruota zodiacale cinese. Ad ogni segno è abbinata un illustrazione dell'animale corrispondente e la descrizione della sue qualità caratteriali e affinità astrologiche.
Cercare per casa guanti e sciarpa e non trovarli, quindi uscire in ritardo per non perdere il treno e scoprire che oltre l'appartamento c'è il sole. Arrivare in stazione sudati e contenti.
Cantare sotto la doccia Amore Disperato e riflettere su quale canzone sarebbe più opportuno presentare casomai si volesse partecipare ai provini i X-Factor.
Ordinare al telefono una pizza wurstel e patetine fritte mentre l'amica, a dieta, ha deciso di autoimporsi la margherita.
Dipingersi le unghie del colore sbagliato: fucsia con brillantini.
Guardare il ragazzo seduto in treno: ha i piedi appoggiati sul sedile di fronte, ma per evitare di sporcare i sedili ha infilato sotto le scarpe un foglio di giornale. Il braccio destro è piegato a sorreggere la fronte concentrata. Aguzzare lo sguardo e leggere il titolo del libro che lo assorbe: è Amleto.
Ricevere l'ultimo regalo di natale: un piccolo soprammobile di plastica trasparente su cui è disegnata l'immagine di un Gesù del Sacro Cuore. Alla base dell'icona una lucetta illumina la plastica di rosa e azzurro.
domenica 8 febbraio 2009
lunedì 26 gennaio 2009
sulla scrittura di blog
Sono le tre del mattino e non riesco a dormire. Stanca di guardare dal letto il mondo piatto fuori dalla finestra (geometria astratta di rettangoli di altre finestre illuminate e rispettive zone d’ombra, interessante magari per una mezzora ma non di più) ho deciso di cercare rimedio all’insonnia scrivendo qualche considerazione su ciò che per ora ho capito, o non ho capito, riguardo la scrittura di blog.
Leggere i blog altrui mi fa passare la voglia di scrivere. Scriviamo tutti alla stessa maniera, chi in una direzione chi in un'altra (le strade sono tre quattro al massimo, impossibile illudersi che esista reale varietà di stile o contenuti), usiamo tutti gli stessi usurati procedimenti retorici, ostentiamo tutti orgogliosamente la pochezza delle nostre ambizioni artistiche. Vige una sorta di compulsività comunicativa, come se esistesse qualcuno al mondo cui possa sinceramente interessare qualsiasi menata ci succeda. Da questo punto di vista mi sono sempre sentita abbastanza inibita, e difatti ho scritto con parsimonia, memore di Hemingway e del monito intelligentissimo posto in chiusura a “Morte nel pomeriggio”:
“Abbiamo visto passare ogni cosa e continueremo a vedere. La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo.”
La mia vita è eccezionalmente normale e normalmente eccezionale (chiasmo facile, ma tant’è), non credo meriti di essere narrata in ogni suo singolo istante. Ogni tanto capitano dei momenti in cui il poco o il nulla che succede mi lascia interrogativa o affascinata. Non riesco a distinguere cosa contengano di speciale, eppure li sento staccarsi nettamente dal restante fluire degli eventi, quasi appartenessero a una dimensione immobile, isolata e bloccata nel tempo. Li trasformo in parole per non dimenticarli e per aiutarmi a scendervi in profondità, scoprire il motivo della loro diversità. Poi leggo altri blog e vi ritrovo le mie stesse parole, i miei stessi moduli sintattici, le mie stesse intonazioni sospensive, e mi deprimo. Si è stabilizzato e diffuso una sorta di buoncostume narrativo spicciolo, e chi più chi meno vi siamo tutti inzaccherati. Impera il colloquialismo alla Baricco (cito lui come esempio celeberrimo ed esasperato): frasi spezzate, periodi brevi a chiudere in tono volutamente modesto ma brillante considerazioni più complesse e, nelle intenzioni, più profonde, frasi che iniziano con congiunzione, cumulazioni di sostantivi a formare lunghe liste delle spesa in cui confluisce con intento straniante il banale e il ricercato, il quotidiano e il dissonante, e via dicendo… Questi procedimenti vengono generalmente adottati ed apprezzati per la loro patina di modernità, ma di fatto siamo ancora fermi negli anni’60 (se non ancora più indietro). In essi si ritrova “il mondo discreto” di Calvino di “Cibernetica e fantasmi”, “il mare dell’oggettualità”, ma di quello che all’epoca sorgeva come orizzonte di contemporaneità oggi rimangono solo gli scarti sterili, ripetizione logora.
I tipi narrativi che ho individuato sono fondamentalmente quattro:
1) romantico scapigliato, attento al particolare banalmente evocativo, valori semplici e fede nei sentimenti (stile “that’s amore – findus” per intendersi, coi giovani precari boehemien a sorbire minestrone dai tetti di Parigi… sigh!), scrittura disinvolta con punte che vorrebbero porsi tra il lirico e il tragico ma a malapena raggiungono il patetico.
2) trasgressivo insofferente, ignaro di qualsiasi tipo di punteggiatura, grandi elenchi confusionari in cui si mescolano droghe leggere e squallore da provincia paranoica, pretese di recupero punk e maledettismo di seconda mano. Lo stravolgimento della sintassi, in Italia proposto dai futuristi cento (cento!) anni or sono, assunto a vessillo di post-modernità.
3) l’intimista simbolico, attento a registrare i piccoli eventi inespressivi con pretese significative, lessico introspettivo e intenzionalmente aereo, fragile, noiosissimo, memore di stereotipate levità giapponesi (dall’haiku a Banana Yoshimoto) senza grazia né acume. (e io sono qua dentro, lo so benissimo)
4) femminile con brio, ovvero le nipotine di Bridget Jones: resoconti di “esilarante” quotidianità, esasperazione comica di genere (mestruazioni, depilazione, sessualità), tratteggio di personalità marcatamente indipendente, stile “Lines Seta Ultra”: nessuna perdita potrà distoglierle dal tour in mongolfiera… (in mongolfiera ?!? ).
Le qualità di cui più si avverte la mancanza sono in generale consapevolezza e narrabilità. L’onnipresente ambizione artistica è ancora dominata dall’antidiluviano concetto di ispirazione come grazia che cade dall’alto, come sacro fuoco che muove le dita del “poeta” (che il supporto fisico sia poi una penna o una tastiera poca importa). Nessuno sembra riflettere sulla scrittura in sé, sulle sue modalità e funzioni, sugli obiettivi a cui la si vuole avvicinare. Si scrive a casaccio esattamente come si scriverebbe sul proprio diario. Niente di male se appunto si trattasse di un privato sfogo emotivo. Il problema è che si scrive invece con ambizioni e pose, censure e autocelebrazioni, perdendo l’unica buona qualità insita nella scrittura personale e ignorante, ovvero la schiettezza.
Non ho mai preteso di trovare l’Autore nel blog, ma non credevo nemmeno vi regnasse una tale e tanto desolante massificazione. Mi figuravo ingenuamente che chi non avesse proprio nulla da scrivere semplicemente non scrivesse (pia illusione). Ho cercato di spiegarmi il fenomeno come naturale dispersione implicita nei grandi numeri, ed ho provato allora a leggiucchiare i blog teoricamente più meritevoli, pubblicati e diffusi da editori e librerie. Un pochino poco di capacità retorica in più, ma fondamentalmente non ci si allontana dalla grande palude.
Questa mia riflessione ovviamente dev’essere intesa come il classico “fascio d’erba” (un paio di blogger in gamba per fortuna li conosco) , ma non credo che la generalizzazione possa scalfire i contenuti. Che altro? Certo sarebbe opportuno affrontare anche l’argomento “complimenti reciproci”, ma credo me lo terrò come jolly per la prossima insonnia.
sabato 10 gennaio 2009
L'automobile
L’automobile è un isola asciutta in un mondo bagnato. Sono giorni che piove, e nonostante i pantaloni inzaccherati sono ancora contenta. E’ fastidioso ma fa bene. Sono seduta in macchina già da un paio d’ore, tutta stretta nel cappotto zafferano, la testa insaccata nella sciarpa. Attorno a me il parcheggio del distributore AGIP, furgoni in entrata e in uscita, operai che camminano guardandosi le scarpe, le facce incattivite dal freddo. Pochi passi per arrivare al Bar Ristoro, tappezzato all’interno dalle stampe ingiallite dei successi Ferrari. Ci sono già entrata per un caffé, ma non mi sentivo a mio agio e ho preferito tornare in macchina. Devo aspettare che Riccardo finisca il colloquio di lavoro, una prima selezione organizzata dall’agenzia in un palazzone fuori Modena. Dietro ai finestrini rigati di pioggia, oltre al palazzone, c’è solo un camion ungherese che sta manovrando, il Bar Ristoro grigio, sporco e giallo, e l’imbocco dell’autostrada. A tratti lo scricchiolio dell’acqua sul parabrezza si fa più intenso, schiacciante. Mi circonda. L’automobile è diventata la mia navicella, uscirne credo sia impossibile. Si è trasformata in un sottomarino, è una sonda infilata nell’umore del mondo, per poterlo spiare mantenendo una distanza impermeabile. Verso l’autostrada il traffico si rincorre in gorgoglii infiniti. Il rumore della pioggia sembra più reale, ma ogni tanto scompare sotto il muggito rugginoso dei TIR. Il cielo grandissimo è biancastro, ricorda quelle pareti lasciate a insudiciarsi e a invecchiare senza mai una mano di bianco.
Vicino al palazzone ci sono degli alberi: alcuni scuotono attorno le foglie rimaste appese ai rami. Li guardo attraverso il vetro deformato dall’acqua, dove le gocce sembrano affondare in una specie di superficie-pozzanghera, molle come plastica, e i profili delle foglie appaiono ancora più sgranati. Altri alberi sono già completamente spogli. Sono belli, neri e magri, impassibili. Senza foglie sembrano agitarsi molto meno. Credo che mi piacerebbe perdere le foglie: assecondare il vento che le strappi via una a una, osservarle dall’alto marcire nei tombini. E poi starsene muti e forti a trascorrere l’inverno, senza doversi preoccupare di sopravvivere. Sarebbe consolante. Gli alberi nudi come tanti asceti coscienziosi, finalmente affrancati da bisogni e passioni, monumenti di atarassia silenziosa e modesta. Dev’essere un sollievo lasciar frullare a terra l’ultima foglia.
Mentre penso a queste cose l’abitacolo s’è raffreddato. Riapro il libro e sempre più immobile continuo a leggere Proust.
mio nonno
Tas e mangia.
Fino al '600 gli anni duravano sei mesi.
Di quel che c'è non manca niente.
L'ultimo lupo mannaro l'hanno ucciso in Siberia nel '700. Aveva il corpo da ragazzo e la faccia da lupo. Poi si sono estinti. L'ultimo esemplare l'hanno imbalsamato e l'hanno esposto in una mostra. Chiaruttini ha la foto.
Quando gli arabi avevano una cultura importante in Italia c'era il ghiaccio fino a Genova.