mercoledì 23 settembre 2009

al telefono

Mia mamma mi racconta dei suoi problemi di cuore. Lui sposato e lei che gli chiede di non farsi sentire. Lui che va a trovarla per l'ultima volta, la mattina presto prima di andare al lavoro, e entrambi sul divano a piangere perchè sono innamorati. A questo punto io inizio a ridere, ridere forte. Lei un po'si arrabbia un po'è contenta: smettila di ridere! E io rido.

mercoledì 2 settembre 2009

idiosincrasie. parte seconda

Mi è un po'difficile proseguire il catologo... è che rileggendo la prima parte mi sono resa conto che non tutto ciò che ho nominato mi causa Odio, alcuni elementi più che altro mi infastidiscono. Comunque il ritratto parzialmente è apparso, almeno a me. Psicologia spicciola vuole che si trovino insopportabili negli altri i difetti propri che più angosciano, e rileggendo attraverso questa chiave quanto ho scritto... un po'mi spavento, ma non troppo. E' vero: sono un tantino ossessionata dal peso e dalla forma fisica, ciò nonostante mangio e bevo tutto, difficile che mi trattenga, e la mancanza di disciplina che imputo agli obesi giganti mi indispettisce soprattutto in relazione a me stessa. Ed è vero che soffro di acide gelosie retroattive nei confronti delle ex, e che probabilmente da questo punto di vista manco di fiducia in me stessa. O anche no. Magari solo a singhiozzi. Tuttavia mi sembra troppo facile rigirarsi addosso tutte le colpe altrui. Ad esempio non me la sento di attribuire l'odio nei confronti della meridionalità artefatta ed esibita ad un improbabile sentimento di nordica inferiorità. Conclusioni? Odio un po'gli altri e un po'me stessa. Così siamo pari. Navarra raee suggerisce di odiare i deboli, e mi trova d'accordo, credo faccia bene.

lunedì 31 agosto 2009

idiosincrasie. parte prima

Io odio. Me ne accorgo di più quando sto con mia mamma, che invece non odia nessuno, al massimo compatisce. La abbraccio appena scesa dal treno, e mentre stiamo ancora attraversando il sottopassaggio ho già iniziato: "Sai chi mi sta veramente sul culo?"
Cercherò di riassumere, per spiegarmi a me stessa. Di solito le mie idiosincrasie si sviluppano singole, chissà che a disporle tutte assieme, tutte vicine, non si riesca poi a tratteggiare un ritratto, a unire i puntini e a scoprire qualcosa che non so. (ovvio: se quello che scopro è brutto cancello il post, ci metto niente)
Io odio: i ciccioni, i grassi, gli obesi giganti. Perchè mancano di autocontrollo, perchè non vogliono essere felici, perchè sono brutti e informi, perchè non hanno disciplina e si inventano i disturbi ghiandolari. Sottocategoria che odio ancora di più: i bambini ciccioni. I bambini non possono essere grassi: i bambini corrono, giocano, metabolizzano. Devono avere le ginocchia aguzze e i gomiti sbucciati. Non possono essere farciti come tacchini. Odio i bambini ciccioni non solo perchè sono innaturali e sgradevoli da vedere, anche perchè sono antipatici. Di solito il sovrappeso li induce a sentirsi diversi, a restarsene un po'isolati o a svillupare sentimenti di invidia, timidezza saccente... Gli unici ciccioni che apprezzo sono i vecchi.
Io odio: gli studenti di Bologna, ma non tutti, nello specifico odio la fauna che popola il 36 e bivacca in piazza verdi. Li odio perchè sono vuoti e truccati, perchè sono tutti talmente diversi da finire inevitabilmente tutti uguali, perchè sono politicizzati e non sono capaci di lavorare, perchè occupano e "reclamano reddito", ma l'affitto lo pagano i genitori e poco importa se per occupare e partecipare alle manifestazioni l'università finisce per durare dieci anni. Li odio perchè non dicono niente, perchè sono gentili e amici di tutti e invece io li odio e loro mi odiano, perchè ascoltano tutti la musica "giusta" e non sono capaci di essere se stessi. Li odio soprattutto perchè si prendono sul serio. E perchè non capiscono le mie battute, e mi guardano strano se ascolto Tiziano Ferro (la Carrà invece ora va bene, sarà un annetto che ha iniziato a reinserirsi nella "musica giusta"). Li odio perchè sono prevedibili e anonimi, nonostante tutti i loro sforzi per emergere.
E poi? Ah sì, poi odio le commesse delle profumerie, i loro atteggiamenti da sacerdetosse. Loro sono le vestali della suprema conoscenza estetica e cosmetica, tu che gli domandi il prezzo del flacomincino piccolo di Bulgari sei e rimarrai per sempre l'ultimo e il più volgare dei mortali. Odio.
Odio tutte le ex dei miei passati, presenti e futuri ragazzi/morosi/mariti (?). E' una campagna che porto avanti da sempre. Loro sono il male, le nemiche, specie se hanno più tette di me. Ringhio quando le vedo passare, e poi a casa improvviso una makumba per esorcizzare la loro presenza. Odio Blerina, la mia ex coinquilina albanese... ma questa storia sarebbe veramente troppo lunga.
Odio le persone che, mentre sto fumando, mi ricordano che fumare fa venire il cancro, la scabbia, i denti gialli e soprattutto la morte. Sono indelicate e inopportune.
Odio le ragazze del sud che devono fare per forze le ragazze-del-sud, e ballano la taranta a piedi nudi e scuotono i ricci selvaggi, e cucinano impastandosi ben bene le mani perchè essendo del sud sono automaticamente passionali e carnali, e quindi visceralmente legate alla terra e alla materia, madri primordiali che plasmano e infornano. Non se ne può più. Odio anche il Salento tutto e la pizzica. Qualche anno fa del Salento anche me ne fregavo, a mala pena sapevo dove fosse, e la pizzica non mi disturbava. Poi è iniziata la colonizzazione, l'infestazione, non c'è stata più festa estiva senza annesso gruppetto di saltellatori idioti (che sono gli stessi del 36, e ovviamente si scuotono a casaccio con la destrezza che non hanno mai), non c'è compagnia di giovani-alternativi-bene che non abbia fatto le sue brave vacanze in Salento. Veramente non se ne può più.
E ora abbandono il post, riprenderò la prossima volta. Il ritratto è ancora lungo a venire.

giovedì 6 agosto 2009

pomeriggio qualunque

A gambe incrociate seduta sul pontile, sulle assi di legno caldo e ruvido. Sotto il pontile solo l’acqua e i pesci. Loro sono snelli e impossibili: blu, giallo e arancio, grandi rispetto agli altri che abitano vicino alla spiaggia. Il ragazzo egiziano li chiama pesci pappagallo e sembra sicuro di quello che dice. Mi fido. Dall’alto li guardo nuotare e sbattere morbidi contro le onde. Aspettano la spinta del mare, la cercano, e quando arriva frullano veloci le pinne squillanti che sembrano ali, si girano paralleli alla cresta dell’onda e si fanno trascinare via un po’più in là. Credevo che i pesci non avessero sentimenti e invece loro sembrano divertirsi. Dovrei chiedere informazioni: i pesci pappagallo sono felici o stanno solo cercando da mangiare? Penso che aggiungerò questo momento alla mia collezione di tempo perduto, e mentre lo penso mi accorgo che forse i pesci non stanno giocando. Forse questo continuo farsi scivolare lontano e recuperare è solo il loro modo di vivere, e tra me e loro non c’è poi quella distanza che immaginavo. Stiamo facendo la stessa cosa: passiamo il nostro tempo e ci lasciamo frangere addosso l’acqua e l’aria e il vento che mi fuma le sigarette. Chiacchiero con un dipendente di Intesa SanPaolo. Mi spiega che i pesci pappagallo sono altri, brucano con il muso la barriera corallina. Ho sbagliato a fidarmi dell’egiziano, e ora non so più cosa sto guardando.

martedì 30 giugno 2009

trentaseiduemilaenove

mal d'africa. patatine fritte mangiate fredde, con le mani unte, e toccarsi la faccia. patrizio è un vecchio magro che non so come ogni tanto finisce a cena in taverna, con noi. ha vissuto quarant'anni in germania, lavorava in una fabbrica di automobili. è gentile e non bestemmia, e mi piacerebbe essere più cortese ma proprio non ce la faccio. mi metto le mani tra i capelli, sul collo sudato. guardo il muro con lo sguardo miope. potrei guardare qualsiasi cosa tranne cosa? l'aria è troppo appiccicosa, addormenta le gambe, i suoi sorrisi paonazzi. non riesco a tenergli lo sguardo addosso. lui racconta di quel pomeriggio in barca fuori porto garibaldi, non capisco come possa accartocciare le guancie a quel modo, e forzarsi ilare e vitale mentre io l'ascolto assente, la bocca dritta, in piedi sgraziata vicino al camino. i vestiti di casa. le ciabatte del milan che non si rompono mai, non si buttano mai via. voglio andarmene. dico: sinceramente non credo di voler ascoltare queste cose. poi mi siedo sul divano, fisso a casaccio il legno delle perline. credo che lui abbia capito, le guancie gli si appiattiscono e ha finalmente uno sguardo normale, interrogativo e adatto alle circostanze. mi volto leggermente e fingo ancora di guardare la tv, che però è girata. non importa. mi tremano le labbra e mi concentro sul televisore girato, su quello che non vedo. striscia la notizia. quando ho la certezza di stare per incominciare a piangere mi alzo, me ne vado camminando lenta, cercando di non farmi troppo notare. esco dalla taverna, salgo le scale e respiro. le mani ancora in faccia. mal d'africa.

domenica 5 aprile 2009

Io sono il mio corpo

Io sono il mio corpo. Me l’ha insegnato Luca un pomeriggio piovoso di tanti (cinque?) anni fa. Stavamo seduti nella veranda di vetro di un bar del centro, ed eravamo frizzanti e ingenui come io sicuramente non sono più. Lui forse è ancora così. Lui mi ha insegnato perché accettare e apprezzare l’arte concettuale e anche quell’altra cosa del corpo. Gli ci è voluto un po’di tempo. Ero abituata a considerare me stessa una sorta di palloncino galleggiante nel vuoto, pieno di pensieri e della voce che mi parla dentro. Il corpo era un’altra cosa: era l’involucro mobile che portava a passeggio il palloncino, che da solo rimaneva in alto nell’aria. Gli ci è voluto un pomeriggio di chiacchiere e caffè ma alla fine Luca mi ha convinto: io sono il mio corpo. Da quella volta ho iniziato a fissarmi, seduta nella vasca da bagno per non schizzare l’acqua in giro. Mi guardavo le gambe rannicchiate e le braccia infreddolite, la carne bianca che ero io, che sono io, e che esisteva al mondo quei soli dieci minuti di doccia arrangiata e piegata su sé stessa. Io sono il mio corpo, mi dicevo, e al mio corpo piace vomitare, questo lo dico adesso. Anche se l’ho sempre saputo, da prima ancora di Luca e della pioggia sulle vetrate del bar. Le notti di festa potevano dirsi complete, concluse, sensate, solamente nel momento in cui mi ritrovavo a fissare dondolando di nausea i miei stessi succhi gastrici. Ma all’inizio succedeva raramente, una volta all’anno, forse anche meno. Quando succedeva stavo contenta un mese. Mi è sempre piaciuto tirare fuori da me pezzi di me, mi fa sentire più pulita, più vuota. Mi piace tagliarmi le unghie, o guardare dal parrucchiere le ciocche di capelli cadere sulle piastrelle lucide. Pezzi di me che non si sarebbero distinti dal mio io essere fisico e dal mio essere cerebrale, totale, io che sono anche le mie unghie e i miei capelli e il mio vomito, pezzi che improvvisamente si staccano, non sono più io, non sono più me, diventano forme estranee che avranno una vita estranea. Dove finiscono le unghie tagliate? Dove finiscono quei pezzi di me? Quando mi gonfio di amarezza o impotenza vomito, quando a cena i miei genitori non si guardano o si guardano storto e le occhiaie di mia madre diventano più viola del solito. Scendo nel bagno piccolo, due piani sotto la nostra cucina e sotto la nostra famiglia di carta, per non farmi sentire mentre rigetto, le mani aggrappate alla tazza del cesso, i brandelli scemi di una cena in silenzio. Lo so che sono bulimica e so che fa male ai denti, perché ricordo una puntata di Beverly Hills in cui il dentista si accorge della malattia di Donna perché gli acidi le hanno corroso lo smalto. Il mio corpo rigurgita il male di me e io mi sento meglio, più sana e santa anche se non sono mai stata cattolica, o meglio lo sono stata come tanti: battesimo e catechismo, vestito bianco per la comunione. Ho comunque ereditato in qualche modo tutto il senso di colpa cristiano cattolico e apostolico. E’lo sporco sotto la pelle che mi inchioda alla doccia bollente. Mi illudo che qualcosa se ne scivoli via assieme al bruciore sulle spalle. Io sono il mio corpo e il mio corpo vuole andarsene, tagliato a pezzi e abbandonato nel mondo, rigettato, vomitato. Il mio corpo vuole una metamorfosi alla rovescia, un passo indietro della coscienza, per svuotarsi di sé e immaginarsi ancora come un palloncino a galleggiare.

lunedì 9 marzo 2009

F.

Tornavamo dal concerto di Stephan Malkmus. Non mi sembrava fossimo ubriachi, era stata una serata tranquilla (ho scoperto di non essere più giovane da quando ho iniziato a disertare il sottopalco). Franz guidava la sua macchina color pudiesa nella notte della steppa friulana, e mi raccontava di quella volta in cui, guidando sempre nella notte ma da solo, ha incontrato un uomo a passeggio con un dromedario. Stava tornando a casa, era mezzanotte passata e faceva freddo (gennaio?). Le strade di campagna ovviamente immobili, senza vita. Tra Portogruaro e Latisana ha sorpassato un signore basso che camminava sul ciglio della strada, tra l'asfalto e il fosso, trascinandosi dietro il dromedario legato da una cordicella. La vicenda è poi finita anche in televisone, l'uomo deve aver attraversato l'intera pianura padana se non sbaglio. Il Franz è stato preso in giro per mesi. Mi stava raccontando questo, quando ha fermato la macchina al distributore di benzina. Eravamo fermi in mezzo al nulla: attorno i campi più neri, il cielo nero anch'esso e fitto di stelle. Tutta la luce del mondo sembrava scaturire da quell'unico distributore piantato nel niente. I neon delle insegne spandevano attorno un brilluccichio articificiale, felicissimo, sulle pompe della benzina e sui cartelloni pubblicitari. Noi eravamo allegri senza motivo, componevamo frasi a casaccio come i bambini, avvicinando le parole solo perchè assieme suonavano bene. Quando luì scese dall'abitacolo ci accorgemmo che dal distributore arrivavava la musica. La musica!!!! "Parlami d'amore marilù". Faceva ridere quella voce lasciata a perdersi nell'aria e nella solitudine, buona solo per noi e per quei nostri cinque minuti da poco. Abbiamo ballato attorno all'automobile come non sappiamo fare. Abbiamo saltellato e girato, girato, girato sotto le luci al neon.