Il paese stamattina era bello e grigio come sempre dovrebbe essere. Un paese dove c’è poco da fare, giusto il fiume da vedere. E da quando hanno spianato la boscaglia capricciosa di sambuchi e rovi, forse nemmeno il fiume. Camminando in piazza ho scoperto una palazzina che non avevo mai notato. Dalla facciata le sporge un piccolo balcone gonfio di autunno e piante sciolte dall’umidità, con una ringhiera rugginosa e panciuta, gli scuri gocciolanti di piogge decennali. Casa mia tra qualche anno avrà lo stesso sguardo assente e muto, come questa invecchierà in un’architettura chiusa in sé stessa. A meno che qualche facoltoso parrucchiere austriaco non vi elegga la propria residenza estiva.
Da piccola mi sdraiavo sul dondolo in cortile, ma all’incontrario. Incastravo le ginocchia sul poggiaschiena, la schiena magra entrava nel sedile di fili di plastica. Abbandonavo la testa ad oscillare penzoloni, i capelli che sfioravano l’erba. Da quella posizione guardavo il giardino e la facciata posteriore della casa, e la nuova prospettiva suggeriva verità insospettate. La casa soprattutto mi si svelava nuda e sorridente, come se a capovolgere il mio sguardo si rovesciasse anche a lei, lasciando cadere a terra l’apparenza solida e funzionale alla quale ero abituata. I muri ruvidi contro cui calciavo il pallone, le finestre da aprire con cautela e mai senza aver prima tirato la zanzariera, il basculante metallico del garage che a toccarlo ci si sporcava di bianco, tutte le espressioni quotidiane e meccaniche venivano a mancare, dileguate. Dell’intera struttura rimaneva poco più che un disegno bidimensionale, un trapezio chiaro nell’azzurro immobile dell’estate: una base larga che si allunga al cielo stringendosi via via, il tetto ridotto ad una V rovesciata. Nell’attimo che mi ci voleva per sistemarmi a testa in giù mi si apriva quello che credevo essere lo spirito originale dell’abitazione, uno spirito amichevole e fanciullo come i primi scarabocchi infantili. Tutto allora sembrava ridere, i denti delle inferriate arrossate e dipinte da poco, la geometria delle portefinestre, i balconi barocchi avvolti in spirali.
Sono passati più di dieci anni da quei pomeriggi e la vernice si stacca a scaglie sottili dalle ringhiere. Le piastrelle della terrazza si sono sollevate e il vento vi ha seminato il tarassaco, una fioritura selvatica e inquietante che col tempo inghiottirà anche noi, non fosse altro che noi ce ne andremo prima. Il gatto affila le unghie nel portafiori scavato nel tronco di un salice, il terriccio viene scagliato tutto attorno. La bora ha smembrato il riparo per i pettirossi, costruito da mio padre con la canna palustre a modello dei casoni dei pescatori. Anche alcune lastre del tetto sono state scalzate dal vento qualche anno fa. Quasi la casa avesse voluto avvisarci del naufragio. Nessun sorriso dietro le tende tirate, il dondolo ridotto a uno scheletro di ferro, la plastica dei sedili scomposta e mangiata dall’abbandono. L’orto è un campo di battaglia. Sul terreno venduto avrebbero dovuto costruire una villino ma i lavori si sono fermati prima di iniziare. E ora dalla finestra, tra me e il fiume, ci sono solo zolle scomposte e cataste di laterizi, qualche nastro plastificato di quelli che segnalano il cantiere. E noi proprio come naufraghi ancora ci abbracciamo a qualche soprammobile, a un portafoto o un quadretto appeso sulle scale per non abbandonarci alla corrente.
la sagra della porchetta di roma
1 giorno fa
1 commento:
Buongiorno e che sia per tutto il giorno.
Assolutamente sublime. Mi ha ricordato le prime pagine d'un libro di Banana Yoshimoto.
Have a nice day :)
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