domenica 5 aprile 2009

Io sono il mio corpo

Io sono il mio corpo. Me l’ha insegnato Luca un pomeriggio piovoso di tanti (cinque?) anni fa. Stavamo seduti nella veranda di vetro di un bar del centro, ed eravamo frizzanti e ingenui come io sicuramente non sono più. Lui forse è ancora così. Lui mi ha insegnato perché accettare e apprezzare l’arte concettuale e anche quell’altra cosa del corpo. Gli ci è voluto un po’di tempo. Ero abituata a considerare me stessa una sorta di palloncino galleggiante nel vuoto, pieno di pensieri e della voce che mi parla dentro. Il corpo era un’altra cosa: era l’involucro mobile che portava a passeggio il palloncino, che da solo rimaneva in alto nell’aria. Gli ci è voluto un pomeriggio di chiacchiere e caffè ma alla fine Luca mi ha convinto: io sono il mio corpo. Da quella volta ho iniziato a fissarmi, seduta nella vasca da bagno per non schizzare l’acqua in giro. Mi guardavo le gambe rannicchiate e le braccia infreddolite, la carne bianca che ero io, che sono io, e che esisteva al mondo quei soli dieci minuti di doccia arrangiata e piegata su sé stessa. Io sono il mio corpo, mi dicevo, e al mio corpo piace vomitare, questo lo dico adesso. Anche se l’ho sempre saputo, da prima ancora di Luca e della pioggia sulle vetrate del bar. Le notti di festa potevano dirsi complete, concluse, sensate, solamente nel momento in cui mi ritrovavo a fissare dondolando di nausea i miei stessi succhi gastrici. Ma all’inizio succedeva raramente, una volta all’anno, forse anche meno. Quando succedeva stavo contenta un mese. Mi è sempre piaciuto tirare fuori da me pezzi di me, mi fa sentire più pulita, più vuota. Mi piace tagliarmi le unghie, o guardare dal parrucchiere le ciocche di capelli cadere sulle piastrelle lucide. Pezzi di me che non si sarebbero distinti dal mio io essere fisico e dal mio essere cerebrale, totale, io che sono anche le mie unghie e i miei capelli e il mio vomito, pezzi che improvvisamente si staccano, non sono più io, non sono più me, diventano forme estranee che avranno una vita estranea. Dove finiscono le unghie tagliate? Dove finiscono quei pezzi di me? Quando mi gonfio di amarezza o impotenza vomito, quando a cena i miei genitori non si guardano o si guardano storto e le occhiaie di mia madre diventano più viola del solito. Scendo nel bagno piccolo, due piani sotto la nostra cucina e sotto la nostra famiglia di carta, per non farmi sentire mentre rigetto, le mani aggrappate alla tazza del cesso, i brandelli scemi di una cena in silenzio. Lo so che sono bulimica e so che fa male ai denti, perché ricordo una puntata di Beverly Hills in cui il dentista si accorge della malattia di Donna perché gli acidi le hanno corroso lo smalto. Il mio corpo rigurgita il male di me e io mi sento meglio, più sana e santa anche se non sono mai stata cattolica, o meglio lo sono stata come tanti: battesimo e catechismo, vestito bianco per la comunione. Ho comunque ereditato in qualche modo tutto il senso di colpa cristiano cattolico e apostolico. E’lo sporco sotto la pelle che mi inchioda alla doccia bollente. Mi illudo che qualcosa se ne scivoli via assieme al bruciore sulle spalle. Io sono il mio corpo e il mio corpo vuole andarsene, tagliato a pezzi e abbandonato nel mondo, rigettato, vomitato. Il mio corpo vuole una metamorfosi alla rovescia, un passo indietro della coscienza, per svuotarsi di sé e immaginarsi ancora come un palloncino a galleggiare.