mercoledì 3 dicembre 2008

poesia di natale

tutti i regali per me
tutti i regali per me
tutti i regali sempre io
tutti regali per me

mercoledì 5 novembre 2008

epifania

Sto sistemando le coperte nell’armadio sopra il mio letto. Ho i piedi nudi mezzo affondati nel materasso e piego il piumino, lo arrotolo alla meglio e lo lancio tra le ante aperte, sperando che cada quasi compostamente sulla pila delle lenzuola. Ho ancora i muscoli intorpiditi dal vino, gli occhi gonfi che sembrano bruciare le palpebre. Addosso i pantaloni caldi della tuta, un golfino da uomo sformato e troppo grande. Il post-sbronza: vestiti comodi e brutti, latte e yogurt, tutto il bianco e il dolce del mondo per purificare la lingua, lo stomaco, sentirsi puliti dentro quando ancora i movimenti sono lenti, le labbra secche che si attaccano ai denti. La casa è vuota e silenziosa, io penso a mio padre e a ieri sera. Attraverso le finestre sento il rumore sfocato di un automobile che rallenta e imbocca il vialetto. Non ho voglia di scendere dal letto e affacciarmi alla finestra, non ho voglia di sapere chi sia arrivato. Continuo a piegare le coperte. Ieri sera ho riso e chiacchierato (di cosa poi? ora non ricordo ma di certo ho parlato acida a vanvera per tutta la sera), ho anche rotto la macchina fotografica nuova. Mi è cascata dalle mani mentre cercavo, camminando e ridendo come un serpente, di fotografare me e Mario assieme. A guardare le foto rimaste c’è da vergognarsi: la mia faccia bianca è spaventosa sotto il colbacco lucido di pelo, contorta nel ghigno dell’ubriachezza, gli occhi rossi e azzurri e le labbra screpolate dal freddo. Ogni scatto un abbraccio diverso, in uno mi ritrovo ad abbracciare un omaccione biondo, un folletto gigante, con gli occhi tagliati sottili e i baffetti rossicci. Indossa il grembiule giallo da cuoco sopra un giubbotto blu da cantiere e mi tiene per le spalle. Io sorrido un sorriso storto. E’stato bello vedere la foghera, la carcassa di sterpi e paglia bruciare alta nel cielo basso di gennaio, il fantoccio della vecchia nel fulgore dei lapilli, nel frastuono dei petardi e della banda che suonava. L’epifania è sempre la mia festa, quest’anno probabilmente ancora di più. Mi sarebbe piaciuto bruciare me stessa dentro quel rogo di campagna, accartocciarmi nella polvere per rinascere come l’araba fenice. Ho potuto solo bere il vino, troppo vino, e mangiare con le mani sporcandomi le guance di unto, stendere il viso al calore del fuoco e chiudere gli occhi. Immaginare che veramente qualcosa si stesse consumando dentro quel pignarul arrangiato nel fango, che veramente qualcosa stesse morendo là dentro gli scoppi e le fiammate nervose. Quasi tutte le baracche che servivano da mangiare avevano chiuso dopo qualche ora, ma quella delle grappe resisteva. Sono tornata a casa che erano le quattro di notte e sull’argine del fiume c’era ancora gente.
Verso le sei, dovevano essere le sei e mezza, mi sono alzata dal letto perché avevo sete. In cucina ho incontrato mio padre e ora non ricordo precisamente cosa disse, ma non ha granché importanza, la solita litania funebre che balbetta da un mese a questa parte, da quando mia madre se n’è andata di casa. Io non ho voluto ascoltarlo: l’avevo già ascoltato abbastanza e non condividevo nessuna delle sue lamentazioni, l’avevo già fatto piangere addosso al mio pigiama la mattina del primo dell’anno. Erano le sei di mattina, io ero a letto da nemmeno due ore e volevo dormire. Come se mi fossi imbattuta in un ombra o avessi intravisto un riflesso allo specchio, l’illusione di una persona, non ho nemmeno accennato una risposta ai suoi guaiti e me ne sono tornata in camera. Ho dormito immobile e pesante come credo debba dormire dio, la coscienza sparsa dappertutto attorno a me, sui cuscini e per terra, tra le pieghe dei vestiti sporchi, per restarmene ferma e sola e senza sogni.
E’stata mia nonna a svegliarmi poche ore dopo. Lei e il nonno abitano nell’appartamento sotto il nostro, niente chiavi, niente formalità, niente privacy, soprattutto adesso che il povero miserrimo padre è stato vilmente abbandonato a sé stesso. La nonna si è seduta sul letto, vicino a me e alla mia inconsistenza, al mio odore di vino. Mi ha scosso piano con le sue mani fredde e dure, mi ha raccontato nel buio quel poco che sapeva: il messaggio di mio padre, le calze della befana. Mi sono alzata e vestita, ho cercato di capire. Nella mia famiglia il sei gennaio si continuano ad appendere sulla stufa le calze imbottite di liquirizie e carbone dolce, non importa se io ho ventitre anni, mio fratello ventuno. Ogni anno che passa ho paura che mia madre si scordi di questo piccolo rito, o che ormai ci creda abbastanza adulti da poterne fare a meno, ed ogni anno ritrovo ad aspettarmi in soggiorno la calza gonfia di caramelle. Stamattina non è stata mia madre a preparare la sorpresa, lei non è nemmeno più in Italia. E’ stato mio padre: dalla stufa in ghisa pendevano due calze colorate, una arancione per me e una blu per mio fratello, e un bigliettino: “Per L. e M.: questo mondo non è per me”. Che accento drammatico! Che eufemismo ridondante, quanta teatralità e capacità retorica di terz’ordine! Non sono riuscita a impedirmi un primo moto sarcastico, sprezzante. Avrei dovuto scoppiare in singhiozzi, strapparmi i capelli dal dolore, graffiarmi la faccia ancora addormentata con le unghie rosicchiate? Nell’insieme l’intera situazione sembrava abbastanza squallida e ridicola da poter essere reale, ma non me la sono sentita di calarmi nel ruolo tragico di figlia orfana inconsolabile. Non riuscivo a prendere sul serio la recita alla quale tutti gli altri invece partecipavano con grande sforzo espressivo e mi sentivo, mi sento, inumana. Ero ancora stizzita dall’incontro delle sei di mattina, dall’egocentrismo fanatico di mio padre e dal suo vittimismo fagocitante da cui nessuno, evidentemente, sarebbe potuto fuggire. Non riuscivo a pensarlo morto, lo pensavo ancora come il grande attore patetico. Ho cercato di tranquillizzare mia nonna, le ho offerto un the caldo, come nella migliore sit-com inglese ho provato a risolvere tutto mettendo a bollire un po’di acqua sul fornello e fingendo la normalità. Ho abbracciato mio nonno che piangeva e non l’avevo mai visto piangere, lui che sembra sempre saldo e inamovibile come un grasso carro armato, la pancia tonda e compatta a proteggerlo da qualsiasi pensiero che non sia il suo. Mio fratello intanto telefonava ai carabinieri e spiegava l’accaduto singhiozzando. Io non ho pianto. Io mi sono scottata la pelle in piedi e impassibile sotto la doccia bollente, quasi anche quello potesse servire a migliorarmi un po’, a togliermi di dosso la sbronza e tutto il male di me stessa e della giornata appena iniziata. Ho indossato la tuta comoda, ho mangiato un po’di yogurt, freddo di sollievo sulle labbra, e ora sto sistemando le coperte nell’armadio. L’automobile che sento entrare in cortile potrebbe essere quella di mio padre, o quella di mio fratello uscito per cercarlo, o quella dei carabinieri. Non voglio saperlo. Non voglio uscire in giardino correndo, non voglio recitare la parte che lui sta cercando di impormi. Me ne sto qua tranquilla a piegare il plaid scozzese.
I carabinieri ci telefonano che è quasi ora di pranzo. Mia nonna evidentemente ha apprezzato la finzione del the perché ora sta apparecchiano la tavola, nella pentola è pronta la pasta al pomodoro (ho fatto una cosa semplice, quello che avevo in casa), ma io e mio fratello stiamo uscendo di casa per andare al fiume. Non parliamo, lui guida nelle strade vuote della pineta. La macchina dei carabinieri è ferma poco lontano dalla foce. L’hanno ritrovato che stava sul faro. Cammino verso mio padre: lui è vestito con gli abiti della domenica, tutto di nero con gli stivaletti di pelle. Io non ho nemmeno portato la giacca e lo abbraccio nell’aria fredda. Me ne sto un pochino, poco, a respirare nel suo maglione troppo profumato e attorno tutto è verde e grigio, gli alberi e il cielo, l’asfalto e il fiume, il mare in lontananza. Poi tocca a mio fratello, che lo abbraccia con la bocca contratta, attento a trattenere le lacrime. Lo spiazzo dove ci troviamo è il fondo cieco di una strada sconnessa, frequentata d’inverno solo dai pescatori, deserta in un giorno di festa. Ci siamo solo io mio fratello mio padre e i due carabinieri. Loro mi fanno cenno di allontanarmi dal gruppo, io li seguo. Mi parlano di dove l’hanno trovato, delle loro impressioni, ci scambiamo i numeri di telefono per tenerci informati non si sa mai, mi chiedono se ho armi in casa. Fucili da caccia rispondo. Devo farli sparire per un po’. Va bene, non c’è problema.
Decidiamo che mio fratello tornerà a casa da solo, io in auto con mio padre. Gli tremano le mani, le guardo anche se cerco di non farmi scoprire in atteggiamento difensivo, ma arriviamo a casa sani e salvi e i pianti di gioia di mia nonna gli ammonimenti il nonno sembra svenire è felice non ci crede l’avevano tutti già dato per morto.
Nel pomeriggio io e lui chiacchieriamo sul divano, nelle luci intermittenti dell’albero di natale. Continua a balbettare che siccome lui aveva mangiato dei pesci voleva che i pesci mangiassero di lui. Un idea romantica posta a capo di una serie di idiozie. Io lo ascolto e cerco di non contraddirlo troppo. Beviamo del whisky e brindiamo a noi e alla fine riusciamo anche, istericamente, a ridere.

mercoledì 18 giugno 2008

la spiaggia

Non mi sono ancora abituata a pensare al mare come a una vita passata. Abito ancora sull'Adriatico, almeno ufficialmente. Ho ancora una stanza da cui si può guardare il fiume, e una bicicletta per pedalare fino alla foce. Ma ho anche un appartamento al sesto piano, Corso Isonzo. L'unica strada della città in cui sembra effettivamente di stare in città. Ho una finestra per guardare i campanili e i grattacieli, la fiamma eterna della fu Montedison. Ho il panettiere sotto casa ma costa troppo.
Non ci avevo mai riflettuto prima, quando ero sicura di abitare al mare, ma me ne accorgo adesso:

Avevo quindici, sedici anni. Durante l'inverno ci si incontrava tutti i pomeriggi all'Arador. Il locale adesso ha cambiato gestione, ma quella volta si poteva ancora contrattare la scelta della musica con Albano, il proprietario, e addormentarsi sul divano come a casa, togliendosi le scarpe. Si beveva un caffè, ci si prendeva in giro, ma quasi sempre finivamo per annoiarci l'uno con l'altro. Tutti i giorni stavamo lì, sempre gli stessi e sempre uguali a noi stessi. Quella particolare monotonia aveva un sapore che non ho ritrovato più, ed è forse l'unica cosa che mi manca di quegli anni. Passavamo le ore, i mesi, adagiati in una sorta di torpore freddo, quasi il tempo ci si fosse congelato attorno. Andavamo a camminare in spiaggia, che tanto stava a venti metri dal bar e volendo ci si poteva tornare (cosa che puntualmente accadeva, appena ci si stancava della sabbia o dell'aria che la trascinava attorno). Passeggiavamo sul bagnasciuga, o più in alto, dove il vento accumulava le dune. Ogni volta decidevamo di sederci, e stavamo seduti a chiaccherare fino a quando era possibile, fino a quando la bora non iniziava a graffiare la faccia. La spiaggia divideva in due il mondo. Da un parte il mare, dall'altra la teoria degli alberghi chiusi, degli appartamenti sfitti. Noi ci sedevamo sempre volgendo le spalle al mare. Non ne abbiamo mai parlato, non ce ne siamo resi conto. Ci veniva spontaneo e non ci siamo mai chiesti perché. Noi guardavamo gli alberghi chiusi.

giovedì 15 maggio 2008

camminante

Guardo la gente che mi cammina a fianco. Sembriamo in gita così vicini e veloci. Abbiamo tutti la stessa cavalcata spiccia e ci muoviamo in sincrono come una scolaresca, anche se nessuno ride e nemmeno ci si parla. Siamo degli sconosciuti educati e manteniamo le distanze, sebbene ci si sfiori gomito a gomito. Però è lecito guardarsi la schiena gli uni con gli altri. Cerco di indovinare i volti oltre quelle spalle ondeggianti, oltre gli zaini e le borse di coccodrillo. E’un esercizio fine a sé stesso, non avrò mai conferma delle mie fantasie. Siamo tutti ombre leggere. Operai e commesse e studenti, badanti, imprenditori, casalinghe, dentisti e muratori. Tutti mi scivolano vicino come vento e non mi toccano. Quando si arriva all’incrocio davanti alla stazione siamo sempre in troppi a voler attraversare. Stiamo schierati ai due lati della strada come eserciti pronti allo scontro, da una parte chi è appena sceso dal treno, dall’altra chi si affretta per salirci. Il semaforo è rosso e noi ci guardiamo in faccia. A tranciare i nostri sguardi lampano e stordiscono le automobili in corsa. Quando scatta il verde, ma spesso anche prima che scatti, iniziamo a muoverci incontro dalle rispettive postazioni. Li vedo compatti arrivarmi addosso e aspetto l’impatto. Stringo le spalle per assorbire il colpo e guardo l’asfalto. Avanzo a piccoli scarti per non intralciare le traiettorie dei miei compagni anonimi compagni di marciapiede. Aspetto l’urto e l’urto non arriva mai. I guerrieri dei due schieramenti si corrono incontro, si infilano gli uni negli spazi vuoti lasciati dagli altri, le fila si frangono. Ci si compenetra e ci si oltrepassa. Dello scambio mi rimane addosso il vento.

lunedì 5 maggio 2008

il signor enzo

Cammino a Trieste nella notte precoce. Le sette di sera di aprile e le strade sono già viola. Incroci e semafori. Più semafori che incroci verso la stazione dei treni. Via Battisti e Via Carducci, passando per Piazza Oberdan, che mi è sempre sembrato un bel nome da ascoltare in città. I passi scendono al suolo con cadenza zingara, disinteressata, senza piglio e senza lena ma regolari. Un avanzare ritmico e rassegnato, distratto nel respiro, l'aria ancora fredda. Perchè non ho fretta. Sono quasi arrivata ma scarto a sinistra. Niente treni stasera che lavoro davanti alla stazione, ma se ho fortuna passerà in pizzeria il Signor Enzo, che coi treni ci lavora ed è tra i pochi clienti a cui sorrido anche quando non mi guarda. Il Signor Enzo è magro e alcolizzato e per questo gli si riserva sempre il tavolo peggiore, incastrato vicino alla porta. Ogni tanto proprio si annoia, o non ha voglia di piegarsi solo sulla tovaglia. Allora ride e si alza, scherza e offre a me e alle cameriere dei cioccolatini. Io gli guardo i denti, le guance abbronzate e ruvide di tabacco e cerco di trattarlo bene, uso i miei occhi migliori per salutarlo e ringraziarlo. Mescolo tutto dentro gli occhi, comprensione e condivisone, istintiva vicinanza.
Non voglio permettermi troppe confidenze con lui. E' il mio cliente preferito e io sono la sua barista. Chissà se passerà stasera.
Sto ancora camminando.

giovedì 1 maggio 2008

la pesca dei tonni

E' quasi ora di cena. Il soggiorno è in ombra ma sulla tavola apparecchiata piove il sole dal lampadario. Uno di quegli oggetti che si trascinano di casa in casa, e che non riescono mai a sentirsi a loro agio. Una grande scodella di vetro opaco e un bordino di plastica rossa, un sostegno a spirale dovrebbe regolarne l'altezza, ma non l'ho mai visto contratto. Sempre appeso molle e rilassato, per nulla integrato agli altri mobili della cucina.
E'una serata allegra. Di quelle in cui facciamo finta di interessarci agli altri, in una famiglia che di familiare ha forse giusto l'odore di polvere di mio padre, quando torna dal lavoro. Ci interroghiamo in domande di cui non ascolteremo le risposte, per farci contenti. Ma non sono importanti le risposte. Siamo tutti consapevoli dell'artificiosità del meccanismo, e tutti entusiasti comunque. La sincerità non è necessaria quanto l'impegno.
La televisione è accesa, trasmettono un servizio sulla pesca dei tonni in Giappone. Sale la nonna dalle scale, saluta e appoggia le pentole che regge in mano. Ogni sera lei sale con le pentole e ogni tanto sono vuote ma più spesso ci si trova dentro la cena. Adesso è ora di cena. Con una lama i pescatori giapponesi aprono il fianco di un tonno. Orgogliosi mostrano alla telecamera le carni nere del pesce. Nere. Mia nonna non si capacita di quel colore e la sua meraviglia mi piace, me la fa sentire più vicina. Di solito le sue parole rotolano affaticate e amare. Si può avere una nonna amara? Ecco che gli attimi in cui spalanca gli occhi ed esclama diventano preziosi. Un punto esclamativo infantile invece dei soliti puntini di sospensione, invece di quel punto fermo che nella sua bocca rimbomba freddo, perentorio come una condanna a morte. E magari sta solo commentando il tempo.
Mio papà è pescatore e dice che è normale che quelle carni siano nere. Io gli domando come mai nelle scatolette diventino rosa. E glielo chiedo per avere una risposta. Potrebbe essere la solita domanda spintarella, inventata lì per lì solo per farlo parlare, farlo sentire bene, e invece io voglio sapere come mai i tonni cambiano di colore. Lui mi guarda, alza le spalle e allarga le braccia ma come trattenendosi. Dura meno di niente la sua espressione, una sorta di vago sbuffo d'impazienza, e si pone esattamente a metà tra il "non ne ho idea" e il "come non lo sai?", indecifrabile.
Rinuncio a qualsiasi altra spiegazione. Ci sediamo sotto il lampadario, nella luce, a mangiare.

lunedì 28 aprile 2008

M.

Le zie sorridono e sembrano molto sincere. Sulla tavola di legno sbocciano da sotto i tovaglioli di carta le torte alla frutta. Si scoprono una dopo l’altra fiammeggiando scintille di confettura e colorante. Non sono molto grandi ma sono cinque, rosse e violacee come fiori laccati. I complimenti di rito, la stupefazione delle bocche allungate, la nonna vestita di nero sta già puntando i pasticcini, distratta poco o nulla dalla primavera della crostata. Anche gli zii sono sinceri: si addossano ai muri e aspettano il piatto di carta. Sorridono perché al taglio della torta è giusto che si sorrida, ma il sorriso gli viene male ed ha sicuramente meno denti di quello delle zie.
Tutto è talmente pronto che sarebbe facile non accorgersi della sua assenza. Ma la famiglia è una buona famiglia, e io mi offro per andarlo a cercare.
Lui ha quattordici anni e questi cinque anemoni di ribes e fragole sono il suo compleanno. Dalla taverna salgo le scale fino all’appartamento e lo trovo in camera. Lui è in piedi nella stanza dipinta di blu e azzurro, volta le spalle alla porta. Si gira e mi saluta ma continua a suonare. Sul letto e per terra stanno accampati i cugini più piccoli. Ce n’è uno grassoccio e occhialuto con in mano un paio di bacchette da batteria trovate chissà dove, che in casa sicuro una batteria non c’è. Un altro, non avrà più di sei anni, batte le mani sulla sedia di plastica verde. Il fratello minore è seduto su un letto ingombro di pupazzi, soffia timido dentro il clarinetto. Tutti a modo loro stanno suonando, o almeno provando a suonare. Lui non li guarda. E’ fermo davanti alla tastiera e alla finestra aperta. Osserva le nocche delle sue mani aprirsi e richiudersi sulle note che non sa leggere, ma che corrono in cerchio ancora una volta ancora una volta e più veloce di prima, contratto e dimentico ad un tempo. E’ il suo quattordicesimo compleanno ed è solo e accerchiato da una tribù di bambini che probabilmente non lo capiscono più, ma non se n’è ancora accorto o forse non gli interessa. Tutta la domenica a scorrere i tasti con la pazienza e il nervosismo del predatore. Aspetta insegue e riprende, ricominciare da capo, rilassarsi e ricominciare, più veloce. Scende a pranzo e poi risale per piantarsi dritto davanti alla tastiera mentre il vento entra lento nella stanza, e gli muove attorno la tenda come una medusa. Lui continua a darmi le spalle, dalla finestra aperta si spande tutto il bianco del muro di fronte.

mercoledì 23 aprile 2008

ombre rosse

E’difficile scrivere nel pre-carbonara.
Riassumerò quindi velocemente dei pensieri di viaggio.
Un vetro rotondeggiante e/o molto sporco di sabbia può trasformare un regionale Bologna-Codigoro in una diligenza sperduta nel vecchio e farraginoso west. I paesaggi che attraversano il finestrino corrono in tondo, simili nel loro slittare curvilineo alle proiezioni di una lanterna magica. La luce fioca di aprile, un primo pomeriggio già intriso di tramonto, e l’Emilia intera è gia invecchiata di polvere di te. Binari morti e piccole stazioni perse nella prateria. In alcuni tratti la strada costeggia in lontananza la ferrovia. Un furgone bianco insegue un’utilitaria anch’essa bianca. E le proporzioni sono le stesse, quasi inalterato il sentimento a trascinare il moto: indiani e cowboy.

martedì 22 aprile 2008

la casa

Il paese stamattina era bello e grigio come sempre dovrebbe essere. Un paese dove c’è poco da fare, giusto il fiume da vedere. E da quando hanno spianato la boscaglia capricciosa di sambuchi e rovi, forse nemmeno il fiume. Camminando in piazza ho scoperto una palazzina che non avevo mai notato. Dalla facciata le sporge un piccolo balcone gonfio di autunno e piante sciolte dall’umidità, con una ringhiera rugginosa e panciuta, gli scuri gocciolanti di piogge decennali. Casa mia tra qualche anno avrà lo stesso sguardo assente e muto, come questa invecchierà in un’architettura chiusa in sé stessa. A meno che qualche facoltoso parrucchiere austriaco non vi elegga la propria residenza estiva.
Da piccola mi sdraiavo sul dondolo in cortile, ma all’incontrario. Incastravo le ginocchia sul poggiaschiena, la schiena magra entrava nel sedile di fili di plastica. Abbandonavo la testa ad oscillare penzoloni, i capelli che sfioravano l’erba. Da quella posizione guardavo il giardino e la facciata posteriore della casa, e la nuova prospettiva suggeriva verità insospettate. La casa soprattutto mi si svelava nuda e sorridente, come se a capovolgere il mio sguardo si rovesciasse anche a lei, lasciando cadere a terra l’apparenza solida e funzionale alla quale ero abituata. I muri ruvidi contro cui calciavo il pallone, le finestre da aprire con cautela e mai senza aver prima tirato la zanzariera, il basculante metallico del garage che a toccarlo ci si sporcava di bianco, tutte le espressioni quotidiane e meccaniche venivano a mancare, dileguate. Dell’intera struttura rimaneva poco più che un disegno bidimensionale, un trapezio chiaro nell’azzurro immobile dell’estate: una base larga che si allunga al cielo stringendosi via via, il tetto ridotto ad una V rovesciata. Nell’attimo che mi ci voleva per sistemarmi a testa in giù mi si apriva quello che credevo essere lo spirito originale dell’abitazione, uno spirito amichevole e fanciullo come i primi scarabocchi infantili. Tutto allora sembrava ridere, i denti delle inferriate arrossate e dipinte da poco, la geometria delle portefinestre, i balconi barocchi avvolti in spirali.
Sono passati più di dieci anni da quei pomeriggi e la vernice si stacca a scaglie sottili dalle ringhiere. Le piastrelle della terrazza si sono sollevate e il vento vi ha seminato il tarassaco, una fioritura selvatica e inquietante che col tempo inghiottirà anche noi, non fosse altro che noi ce ne andremo prima. Il gatto affila le unghie nel portafiori scavato nel tronco di un salice, il terriccio viene scagliato tutto attorno. La bora ha smembrato il riparo per i pettirossi, costruito da mio padre con la canna palustre a modello dei casoni dei pescatori. Anche alcune lastre del tetto sono state scalzate dal vento qualche anno fa. Quasi la casa avesse voluto avvisarci del naufragio. Nessun sorriso dietro le tende tirate, il dondolo ridotto a uno scheletro di ferro, la plastica dei sedili scomposta e mangiata dall’abbandono. L’orto è un campo di battaglia. Sul terreno venduto avrebbero dovuto costruire una villino ma i lavori si sono fermati prima di iniziare. E ora dalla finestra, tra me e il fiume, ci sono solo zolle scomposte e cataste di laterizi, qualche nastro plastificato di quelli che segnalano il cantiere. E noi proprio come naufraghi ancora ci abbracciamo a qualche soprammobile, a un portafoto o un quadretto appeso sulle scale per non abbandonarci alla corrente.

lunedì 21 aprile 2008

kebab

La luce entra gialla nella stanza. Sacra luce di primavera quando la primavera deve ancora arrivare. La migliore luce di primavera. Scende attraverso i vetri sporchi e mi tocca la faccia. E' la grazia divina, immobile e benevola.
Il ragazzo pakistano si è ritirato in cucina dopo avermi preparato il kebab. Sono sola, io e la luce gialla sui muri gialli. Siedo su uno sgabello zoppo e mangio.
Un boccone dopo l'altro. Patatine fritte e maionese.
Maionese e ketchup.
Salsa rosa.
La luce gialla sui muri gialli ha il sapore della salsa rosa.
Un boccone e ancora uno. Carne e spezie bizantine.
Insalata.
Carne.
Sono felice di una felicità rotonda come questo panino e non ho bisogno di nient'altro che della luce e della carne.
Un boccone lento dopo l'altro, e la musica. La cantante attorciglia parole impossibili. Musica orientale limpida e densa come questo momento, che si staglia netto tra i giorni migliori e i giorni peggiori, immerso nella profondità subacquea delle quattro del pomeriggio. Guardo fuori dalla finestra, soddisfatta come un pesce. I tigli si scuotono nel cielo con lentezza, alghe nella corrente.
Guardo le pareti. Ritagli di giornale appiccicati col nastro adesivo. Volti di giovani indiane, gli occhi neri neri che sorridono. I capelli lunghi intrecciati. Tre volti. Non i corpi, solo i volti. I ritratti tagliati alle spalle. Penso a quanto sia diversa l'iconografia pubblicitaria occidentale, alle pance nude tirate di Calvin Klein, agli sguardi lividi, alla pelle fredda e esposta, all'indifferenza luttuosa di certi occhi.
Una di queste ragazze sorride proprio davanti al mio naso.
E' giusto.
Io sono felice e lei sorride.

domenica 20 aprile 2008

in treno

pensieri scomodi, di spalla slogata e lo spazio bianco che crea sempre quel tanto di insicurezza che basta. tante immagini dietro gli occhi, alcune talmente lontane (e il tempo passa così lento e profondo, come un fiume alla foce - paragone banale ma tant'è - che sono passate solo 7 8 9 settimane) e già perse. persa la vividezza. il colore. specie di quelle pance nude e tirate che ho visto in treno. ne ho vista una in autunno e una in inverno. pance di ragazze che si tendono verso valigie sospese sopra le teste dei viaggiatori, e si scopre la carne così. un momento di carne in mezzo ai piumini e le sciarpe, i volti pallidi e le occhiaie dei pendolari. non so cos'ho capito da quei due momenti, e può pure darsi non abbia capito nulla (senza retorica), fatto stà che sono rimasta ferma a guardare la pelle nuda tutto il tempo (lunghissimo), e ora sto coperta anch'io e grazie a dio di stracci viola azzurro e jeans. mi faccio ridere le palle, come direbbe domenico scandendo bene le sillabe, lasciandole cadere al suolo come sassi.
non scrivo mai. ci sarà un motivo? e le volte che scrivo mi sputo addosso (come sto facendo ora), mi giro e mi rigiro sui miei passi. questa è la danza del serpente che viene giù dal monte, per ritrovare la sua coda che egli perse un dì. (buon titolo per un libro, nonostante il vago sapore allegorico nietschiano) (e mi scuso ma l'istruzione non sempre è cosa buona e giusta). non scrivo perchè non ho niente di proficuo da comunicare, e allora forse scriverò male sbeffeggiando grafie e punteggiature. scriverò statica senza comunicare nulla a nessuno.
ho visto tante cose ultimamente. sarà che spesso sono sola (sempre in mezzo ai 16.000 iscritti a lettere e agli altri migliaia di decinaia di migliaia di iscritti a qualsiasi altra facoltà, partito preso, alternativa di vita possibile e impossibile), o che spesso non sono ufficialmente da sola ma la mia interazione si rinchiude lo stesso avvilita su sè stessa e nella torsione con cui mi lacero le mani (che non so dove mettere). le guardano tutti le mie mani. tutti quelli con cui non sono. forse sono l'unica cosa che emerge dalla mia assenza. dita che torcono pieghe di pelle sulle nocche, slavate e ingobbite squamose come il dorso del coccodrillo.
ho le mani a coccodrillo.
non ci avevo mai pensato, ma non mi ripugna. è quasi simpatico anzi (ma forse è solo un moto d'orgoglio difensivo).
insomma mi aggiro per le aule di via zamboni e guardo la gente. ma guardarla troppo non sta bene, e allora ogni tanto guardo il soffitto che sembro un asceta della pausa caffè. sigaretta in una mano (coccodrillo) e biccherino di plastica nell'altra (mano coccodrillo) sospesa nell'estasi della parete increspata. dopo un po' neanche l'ascesi sta bene, e allora continuo a guardare la gente, che forse è più normale. magari maleducato ma normale (nor-male non-male). ho visto pantaloni cascanti e ciuffi ascendenti, praticamente una composizione in diagonale di gente diagonale. ovvero: semovente. perchè una diagonale per quanto ricca di espressività dinamica rimane una linea messa lì, e perchè le persone per quanto agitate stanno pur sempre bevendo un caffè.
io piantata in mezzo alle diagonali a meditare osservando i tubi ciccioni che escono dal soffitto. non ho voglia di scrivere del vuoto rotolante di certe menti, che tante certe cose si sanno, e soprattutto non mi motivano abbastanza. difatti non descrivo. o sì? potrebbe essere una via di mezzo accettabile la descrizione-trascrizione-documento? ho trovato: non le descrivo ma le testimonio (fatto!). insomma vedo tante cose.

sabato 19 aprile 2008

le farfalle nello stomaco

primo giorno di blog. e c'è il sole e io sono nervosa. sarà che ho mangiato di fretta e che ieri qualcuno si è ucciso nell'appartamento di fianco. non è che si stia proprio bene in questo sabato e nell'aria ferma. ieri pensavo a tante belle disquizioni pseudo-metaletterarie per inauguare questo diario, ma oggi sento un vuoto strano e le farfalle nello stomaco (che a rigor di logica dovrebbe giacere schiacciate da forchettate e forchettate di maccheroni alla montanara masticati male, e invece rimbalzano e volano e rimbalzano) e anch'io non so più bene dove stia andando a finire. proverò lo stesso a dare un impostazione teorica a questo scrivere nullo. nullo perchè? perchè vorrei non lo leggesse nessuno, o per lo meno nessuno di mia conoscenza, per paura di comprometterne la sincerità. (che non è poi sempre la cosa più importante? e lo so, sincerità è una parola gonfia e purtoppo la retorica di seconda mano è sempre in agguato, ma vorrei che fosse intesa nella sua accezione più fredda, alla hemingway insomma.) comunque non credo riuscirò a stringermi a lungo attaccata a questo segreto, che la vanità è ancora più subdola della retorica. "tutto è vanità e inseguire il vento" scriveva m. dumas nei suoi appunti sconnessi, e chi sono io per sottrarmi al dogma? però sono curiosa di vedere quanto resisterò da sola. io e il blog (cosa poi sia un blog devo ancora capirlo). non credo potrà mai avere la stessa immediatezza di un diario cartaceo.
da poco ho iniziato a scrivere su un quadernetto (in copertina: dante che beve un mojito con la cannuccia a righine, degnissima rappresentanza) e continuerò a scriverci nonostante il blog, anche se in effetti quando ho qualche buona idea il quaderno non c'è mai.
cosa voglio da questa scrittura in bilico tra il pubblico e il privato? soprattutto voglio trovare stimolo nello scrivere. un cerchio che si chiude, e che non porta da nessuna parte, se non ad un ritorno spiraliforme sui propri passi. credo sarebbe già abbastanza poter immaginare un pubblico che non esiste, ma che mi sproni nel suo silenzio ad esprimere (esprimere cosa poi non ne ho idea). quando penso alla scrittura inizio a macerare, un po' come le foglie quando cadono nei tombini. mi imputrisco in pensieri già pensati e alla fine fumo una sigaretta e esco a comprare qualche verdura per fare il minestrone (somma panacea di tutti i mali).
ho deciso per il momento di accantonare questo tipo di girotondo sadico, anche se sicuramente a breve tornerò su proust e su hemnigway e su flaubert. che sono poi loro, e le poche cose che so di loro, a menarmi per il naso e farmi girare come una trottola su me stessa fino a che mi si piegano le ginocchia e casco a terra.
mi rendo conto di essere stata un po'troppo stucchevole (ma quando ho le farfalle nello stomaco va così, nulla da fare, divento d'annunziana), ed appunto un altra speranza che lego all'esperienza telematica-&-semisferica è relativa allo stile, che vorrei asciugare. so di essere ancora molto ingenua, rimpinzo la paratassi di aggettivi e parentesi (come questa), non riesco a focalizzare il nervo del discorso. anche se ad esser sinceri le parentesi di per sè non mi sembrano poi un gran dramma, ma solo perchè mi ricordano proust...
(sigh, non ne uscirò mai.)
vabbè dai, fine della trasmissione. tornerò sicuramente più scintillante stupendevole sana e salubre un altro giorno. (un giorno in cui magari non mi sveglio col pensiero che attraverso la parete a cui mi appoggio per leggere a letto qualcuno si è ammazzato).