giovedì 31 dicembre 2009

novembre lontanissimo


Sabato pomeriggio io e Francesco pedaliamo fino alla spiaggia. Io con la graziella blu, lui con la mountain bike cigolante che mio nonno ha raccolto dal fosso, e che ha aggiustato in qualche maniera. Arriviamo in riva al mare e prendiamo il sole in faccia. Ci sediamo anche sugli scogli, per fumare una sigaretta e fare un giro di briscola. Perdo perché mi distraggo a guardare le onde. Sono convinta di aver visto salire la marea.
Ci avviciniamo di nuovo al bagnasciuga, e vorrei fargli vedere i buchetti a forma di 8 lasciati nella sabbia dalle cape lunghe, le canocchie in italiano, credo. Cammino piegata a scrutare, ma non ne trovo nemmeno uno. Solo dopo, a casa, parlerò della cosa a mio nonno, e mi spiegherà che le cape lunghe della spiaggia sono tutte morte. Non si sa perché.
Invece dei buchi a forma di 8, trovo tanti mucchietti di sabbia bagnata arrotolata, segnalano la presenza dei vermi di mare. Animali brutti. Con Francesco decidiamo di cercare i granchi, e io mi dichiaro: sono un abilissima cacciatrice, ma non ne troviamo neanche uno, neppure di quelli. Avranno freddo?
Stiamo tornando alle bici quando si avvicinano correndo due cani, che ci sorpassano per buttarsi in acqua e poi strizzarsi e rotolare. Sono grossi e io ho paura, quindi tengo lo sguardo fermo sui miei granchi scomparsi e spero che i cani non mi considerino viva.

tra natale e l'ultimo


Vorrei pubblicare prima di morire. Non nel senso che vorrei pubblicare almeno una volta nella vita, ma nel senso proprio che vorrei pubblicare da vecchia, e poi morire. Non vorrei fare l'autore, che si esprime fuori dai suoi libri.
Per ora passo il tempo ipnotizzata dalle lucine intermittenti dell'albero di natale.


lunedì 16 novembre 2009

collezione di tempo mangiato 3

piadina alla nutella



le dixie



gnocchi alla romana

domenica 15 novembre 2009

running to stand still

Ieri avevo tutto in testa e lo volevo scrivere, ma stavo cucinando lo sformato di patate e attendevo amici per cena: niente da fare. Ora è domenica mattina e ricordo forse la metà di quello a cui ho pensato ieri, nel galleggiare distratto di quando grattuggiavo il formaggio e tritavo le carote. Non che fosse granchè poi, il pensiero. Che lo sformato invece era buono.
E'una settimana che ascolto canzoni sentimentali e popolari. Recupero i classici e le ballate, i pezzi lenti e commoventi e le canzonette tardoadolescenziali. Non mi arrendo di fronte a niente, e dopo esser passata attraverso Vecchioni e Mietta, e i Lunapop e Ivan Graziani, e altri e altri ancora, sono arrivata a una vecchia cassetta degli U2, un misto di vari album che una volta ascoltavo prima di addormentarmi, quando ero sedicenne e triste. Ho ritrovaro una delle canzoni preferite della mia autocommiserazione: Running to stand still. Ho sempre ignorato il testo, mi bastava il titolo. Ieri l'ho riascoltata, indaffarata in cucina e credo serena, e mi sono resa conto di quanto poco sia cambiato in me rispetto quei tempi. Stessa autocommiserazione piagnucolosa, stesso sentimento di impotenza e vigliaccheria. Probabilmente ragiono in questi termini perchè si appresta capodanno (o la tesi, ma preferisco pensare a capodanno), ed evidentemente ho bisogno di metabolizzare, mandare giù qualcosa. L'altro ieri mattina ero stanca e acida di vino cattivo, non volevo studiare e mi sono ritrovata a sistemare la posta del 2005. Leggiucchiavo qua è là e brani di lettere, archiviando e ordinando. Ho riscoperto cose che non ricordavo, e soprattutto un commento di Dario, un amico che non frequento più da quella volta, e che mi scriveva: tanto lo so che cadi sempre in piedi. E' anche banale, ma aveva ragione allora, e oggi pure e probabilmente avrà ragione per sempre: cado in piedi, ma non so più mi basta.
Ci sono alcune cose in cui credo: credo che non bisogna essere tutti artisti, che non sia naturale. Credo che non per forza si abbia qualcosa da dire. Credo che l'ambizione intellettuale nasconda il più delle volte il bisogno di essere riconosciuti e apprezzati, e che gli sforzi di molti in questa direzione siano motivati alla base da esigenze più basse e viscerali, siano implicite richieste di attenzione. Credo che per raggiungere il protagonismo siano necessari dei compromessi a cui non intendo partecipare, credo di non avere bisogno di gratificazioni di questo tipo e di poter vivere serena e forte e bastante a me stessa. Giuro, credo a tutto questo, eppure ho paura di mentire. Ho paura di usare questi punti fermi per vietare a me stessa di osare, di rischiare. Me la caverò sempre, e cadrò sempre in piedi come scriveva Dario. Ma è questo quello che voglio? Ogni tanto mi sento semplicemente troppo spaventata e vigliacca per affrontare i miei desideri e il mondo. Sto correndo ma rimango ferma, mi affatico e passano i giorni, ma non cambia mai nulla dentro me, perchè non riesco e forse non voglio impegnare me stessa in sfide troppo grandi. Ho paura di perderle, e di dovermi ricostruire da zero. Prima o poi dovrò affrontare questo nodo: sedermi e pensare.

giovedì 8 ottobre 2009

Lo sapete che quando scendo le scale i miei passi fanno rumore?
Siamo tutti incredibilmente vivi.

mercoledì 23 settembre 2009

al telefono

Mia mamma mi racconta dei suoi problemi di cuore. Lui sposato e lei che gli chiede di non farsi sentire. Lui che va a trovarla per l'ultima volta, la mattina presto prima di andare al lavoro, e entrambi sul divano a piangere perchè sono innamorati. A questo punto io inizio a ridere, ridere forte. Lei un po'si arrabbia un po'è contenta: smettila di ridere! E io rido.

mercoledì 2 settembre 2009

idiosincrasie. parte seconda

Mi è un po'difficile proseguire il catologo... è che rileggendo la prima parte mi sono resa conto che non tutto ciò che ho nominato mi causa Odio, alcuni elementi più che altro mi infastidiscono. Comunque il ritratto parzialmente è apparso, almeno a me. Psicologia spicciola vuole che si trovino insopportabili negli altri i difetti propri che più angosciano, e rileggendo attraverso questa chiave quanto ho scritto... un po'mi spavento, ma non troppo. E' vero: sono un tantino ossessionata dal peso e dalla forma fisica, ciò nonostante mangio e bevo tutto, difficile che mi trattenga, e la mancanza di disciplina che imputo agli obesi giganti mi indispettisce soprattutto in relazione a me stessa. Ed è vero che soffro di acide gelosie retroattive nei confronti delle ex, e che probabilmente da questo punto di vista manco di fiducia in me stessa. O anche no. Magari solo a singhiozzi. Tuttavia mi sembra troppo facile rigirarsi addosso tutte le colpe altrui. Ad esempio non me la sento di attribuire l'odio nei confronti della meridionalità artefatta ed esibita ad un improbabile sentimento di nordica inferiorità. Conclusioni? Odio un po'gli altri e un po'me stessa. Così siamo pari. Navarra raee suggerisce di odiare i deboli, e mi trova d'accordo, credo faccia bene.

lunedì 31 agosto 2009

idiosincrasie. parte prima

Io odio. Me ne accorgo di più quando sto con mia mamma, che invece non odia nessuno, al massimo compatisce. La abbraccio appena scesa dal treno, e mentre stiamo ancora attraversando il sottopassaggio ho già iniziato: "Sai chi mi sta veramente sul culo?"
Cercherò di riassumere, per spiegarmi a me stessa. Di solito le mie idiosincrasie si sviluppano singole, chissà che a disporle tutte assieme, tutte vicine, non si riesca poi a tratteggiare un ritratto, a unire i puntini e a scoprire qualcosa che non so. (ovvio: se quello che scopro è brutto cancello il post, ci metto niente)
Io odio: i ciccioni, i grassi, gli obesi giganti. Perchè mancano di autocontrollo, perchè non vogliono essere felici, perchè sono brutti e informi, perchè non hanno disciplina e si inventano i disturbi ghiandolari. Sottocategoria che odio ancora di più: i bambini ciccioni. I bambini non possono essere grassi: i bambini corrono, giocano, metabolizzano. Devono avere le ginocchia aguzze e i gomiti sbucciati. Non possono essere farciti come tacchini. Odio i bambini ciccioni non solo perchè sono innaturali e sgradevoli da vedere, anche perchè sono antipatici. Di solito il sovrappeso li induce a sentirsi diversi, a restarsene un po'isolati o a svillupare sentimenti di invidia, timidezza saccente... Gli unici ciccioni che apprezzo sono i vecchi.
Io odio: gli studenti di Bologna, ma non tutti, nello specifico odio la fauna che popola il 36 e bivacca in piazza verdi. Li odio perchè sono vuoti e truccati, perchè sono tutti talmente diversi da finire inevitabilmente tutti uguali, perchè sono politicizzati e non sono capaci di lavorare, perchè occupano e "reclamano reddito", ma l'affitto lo pagano i genitori e poco importa se per occupare e partecipare alle manifestazioni l'università finisce per durare dieci anni. Li odio perchè non dicono niente, perchè sono gentili e amici di tutti e invece io li odio e loro mi odiano, perchè ascoltano tutti la musica "giusta" e non sono capaci di essere se stessi. Li odio soprattutto perchè si prendono sul serio. E perchè non capiscono le mie battute, e mi guardano strano se ascolto Tiziano Ferro (la Carrà invece ora va bene, sarà un annetto che ha iniziato a reinserirsi nella "musica giusta"). Li odio perchè sono prevedibili e anonimi, nonostante tutti i loro sforzi per emergere.
E poi? Ah sì, poi odio le commesse delle profumerie, i loro atteggiamenti da sacerdetosse. Loro sono le vestali della suprema conoscenza estetica e cosmetica, tu che gli domandi il prezzo del flacomincino piccolo di Bulgari sei e rimarrai per sempre l'ultimo e il più volgare dei mortali. Odio.
Odio tutte le ex dei miei passati, presenti e futuri ragazzi/morosi/mariti (?). E' una campagna che porto avanti da sempre. Loro sono il male, le nemiche, specie se hanno più tette di me. Ringhio quando le vedo passare, e poi a casa improvviso una makumba per esorcizzare la loro presenza. Odio Blerina, la mia ex coinquilina albanese... ma questa storia sarebbe veramente troppo lunga.
Odio le persone che, mentre sto fumando, mi ricordano che fumare fa venire il cancro, la scabbia, i denti gialli e soprattutto la morte. Sono indelicate e inopportune.
Odio le ragazze del sud che devono fare per forze le ragazze-del-sud, e ballano la taranta a piedi nudi e scuotono i ricci selvaggi, e cucinano impastandosi ben bene le mani perchè essendo del sud sono automaticamente passionali e carnali, e quindi visceralmente legate alla terra e alla materia, madri primordiali che plasmano e infornano. Non se ne può più. Odio anche il Salento tutto e la pizzica. Qualche anno fa del Salento anche me ne fregavo, a mala pena sapevo dove fosse, e la pizzica non mi disturbava. Poi è iniziata la colonizzazione, l'infestazione, non c'è stata più festa estiva senza annesso gruppetto di saltellatori idioti (che sono gli stessi del 36, e ovviamente si scuotono a casaccio con la destrezza che non hanno mai), non c'è compagnia di giovani-alternativi-bene che non abbia fatto le sue brave vacanze in Salento. Veramente non se ne può più.
E ora abbandono il post, riprenderò la prossima volta. Il ritratto è ancora lungo a venire.

giovedì 6 agosto 2009

pomeriggio qualunque

A gambe incrociate seduta sul pontile, sulle assi di legno caldo e ruvido. Sotto il pontile solo l’acqua e i pesci. Loro sono snelli e impossibili: blu, giallo e arancio, grandi rispetto agli altri che abitano vicino alla spiaggia. Il ragazzo egiziano li chiama pesci pappagallo e sembra sicuro di quello che dice. Mi fido. Dall’alto li guardo nuotare e sbattere morbidi contro le onde. Aspettano la spinta del mare, la cercano, e quando arriva frullano veloci le pinne squillanti che sembrano ali, si girano paralleli alla cresta dell’onda e si fanno trascinare via un po’più in là. Credevo che i pesci non avessero sentimenti e invece loro sembrano divertirsi. Dovrei chiedere informazioni: i pesci pappagallo sono felici o stanno solo cercando da mangiare? Penso che aggiungerò questo momento alla mia collezione di tempo perduto, e mentre lo penso mi accorgo che forse i pesci non stanno giocando. Forse questo continuo farsi scivolare lontano e recuperare è solo il loro modo di vivere, e tra me e loro non c’è poi quella distanza che immaginavo. Stiamo facendo la stessa cosa: passiamo il nostro tempo e ci lasciamo frangere addosso l’acqua e l’aria e il vento che mi fuma le sigarette. Chiacchiero con un dipendente di Intesa SanPaolo. Mi spiega che i pesci pappagallo sono altri, brucano con il muso la barriera corallina. Ho sbagliato a fidarmi dell’egiziano, e ora non so più cosa sto guardando.

martedì 30 giugno 2009

trentaseiduemilaenove

mal d'africa. patatine fritte mangiate fredde, con le mani unte, e toccarsi la faccia. patrizio è un vecchio magro che non so come ogni tanto finisce a cena in taverna, con noi. ha vissuto quarant'anni in germania, lavorava in una fabbrica di automobili. è gentile e non bestemmia, e mi piacerebbe essere più cortese ma proprio non ce la faccio. mi metto le mani tra i capelli, sul collo sudato. guardo il muro con lo sguardo miope. potrei guardare qualsiasi cosa tranne cosa? l'aria è troppo appiccicosa, addormenta le gambe, i suoi sorrisi paonazzi. non riesco a tenergli lo sguardo addosso. lui racconta di quel pomeriggio in barca fuori porto garibaldi, non capisco come possa accartocciare le guancie a quel modo, e forzarsi ilare e vitale mentre io l'ascolto assente, la bocca dritta, in piedi sgraziata vicino al camino. i vestiti di casa. le ciabatte del milan che non si rompono mai, non si buttano mai via. voglio andarmene. dico: sinceramente non credo di voler ascoltare queste cose. poi mi siedo sul divano, fisso a casaccio il legno delle perline. credo che lui abbia capito, le guancie gli si appiattiscono e ha finalmente uno sguardo normale, interrogativo e adatto alle circostanze. mi volto leggermente e fingo ancora di guardare la tv, che però è girata. non importa. mi tremano le labbra e mi concentro sul televisore girato, su quello che non vedo. striscia la notizia. quando ho la certezza di stare per incominciare a piangere mi alzo, me ne vado camminando lenta, cercando di non farmi troppo notare. esco dalla taverna, salgo le scale e respiro. le mani ancora in faccia. mal d'africa.

domenica 5 aprile 2009

Io sono il mio corpo

Io sono il mio corpo. Me l’ha insegnato Luca un pomeriggio piovoso di tanti (cinque?) anni fa. Stavamo seduti nella veranda di vetro di un bar del centro, ed eravamo frizzanti e ingenui come io sicuramente non sono più. Lui forse è ancora così. Lui mi ha insegnato perché accettare e apprezzare l’arte concettuale e anche quell’altra cosa del corpo. Gli ci è voluto un po’di tempo. Ero abituata a considerare me stessa una sorta di palloncino galleggiante nel vuoto, pieno di pensieri e della voce che mi parla dentro. Il corpo era un’altra cosa: era l’involucro mobile che portava a passeggio il palloncino, che da solo rimaneva in alto nell’aria. Gli ci è voluto un pomeriggio di chiacchiere e caffè ma alla fine Luca mi ha convinto: io sono il mio corpo. Da quella volta ho iniziato a fissarmi, seduta nella vasca da bagno per non schizzare l’acqua in giro. Mi guardavo le gambe rannicchiate e le braccia infreddolite, la carne bianca che ero io, che sono io, e che esisteva al mondo quei soli dieci minuti di doccia arrangiata e piegata su sé stessa. Io sono il mio corpo, mi dicevo, e al mio corpo piace vomitare, questo lo dico adesso. Anche se l’ho sempre saputo, da prima ancora di Luca e della pioggia sulle vetrate del bar. Le notti di festa potevano dirsi complete, concluse, sensate, solamente nel momento in cui mi ritrovavo a fissare dondolando di nausea i miei stessi succhi gastrici. Ma all’inizio succedeva raramente, una volta all’anno, forse anche meno. Quando succedeva stavo contenta un mese. Mi è sempre piaciuto tirare fuori da me pezzi di me, mi fa sentire più pulita, più vuota. Mi piace tagliarmi le unghie, o guardare dal parrucchiere le ciocche di capelli cadere sulle piastrelle lucide. Pezzi di me che non si sarebbero distinti dal mio io essere fisico e dal mio essere cerebrale, totale, io che sono anche le mie unghie e i miei capelli e il mio vomito, pezzi che improvvisamente si staccano, non sono più io, non sono più me, diventano forme estranee che avranno una vita estranea. Dove finiscono le unghie tagliate? Dove finiscono quei pezzi di me? Quando mi gonfio di amarezza o impotenza vomito, quando a cena i miei genitori non si guardano o si guardano storto e le occhiaie di mia madre diventano più viola del solito. Scendo nel bagno piccolo, due piani sotto la nostra cucina e sotto la nostra famiglia di carta, per non farmi sentire mentre rigetto, le mani aggrappate alla tazza del cesso, i brandelli scemi di una cena in silenzio. Lo so che sono bulimica e so che fa male ai denti, perché ricordo una puntata di Beverly Hills in cui il dentista si accorge della malattia di Donna perché gli acidi le hanno corroso lo smalto. Il mio corpo rigurgita il male di me e io mi sento meglio, più sana e santa anche se non sono mai stata cattolica, o meglio lo sono stata come tanti: battesimo e catechismo, vestito bianco per la comunione. Ho comunque ereditato in qualche modo tutto il senso di colpa cristiano cattolico e apostolico. E’lo sporco sotto la pelle che mi inchioda alla doccia bollente. Mi illudo che qualcosa se ne scivoli via assieme al bruciore sulle spalle. Io sono il mio corpo e il mio corpo vuole andarsene, tagliato a pezzi e abbandonato nel mondo, rigettato, vomitato. Il mio corpo vuole una metamorfosi alla rovescia, un passo indietro della coscienza, per svuotarsi di sé e immaginarsi ancora come un palloncino a galleggiare.

lunedì 9 marzo 2009

F.

Tornavamo dal concerto di Stephan Malkmus. Non mi sembrava fossimo ubriachi, era stata una serata tranquilla (ho scoperto di non essere più giovane da quando ho iniziato a disertare il sottopalco). Franz guidava la sua macchina color pudiesa nella notte della steppa friulana, e mi raccontava di quella volta in cui, guidando sempre nella notte ma da solo, ha incontrato un uomo a passeggio con un dromedario. Stava tornando a casa, era mezzanotte passata e faceva freddo (gennaio?). Le strade di campagna ovviamente immobili, senza vita. Tra Portogruaro e Latisana ha sorpassato un signore basso che camminava sul ciglio della strada, tra l'asfalto e il fosso, trascinandosi dietro il dromedario legato da una cordicella. La vicenda è poi finita anche in televisone, l'uomo deve aver attraversato l'intera pianura padana se non sbaglio. Il Franz è stato preso in giro per mesi. Mi stava raccontando questo, quando ha fermato la macchina al distributore di benzina. Eravamo fermi in mezzo al nulla: attorno i campi più neri, il cielo nero anch'esso e fitto di stelle. Tutta la luce del mondo sembrava scaturire da quell'unico distributore piantato nel niente. I neon delle insegne spandevano attorno un brilluccichio articificiale, felicissimo, sulle pompe della benzina e sui cartelloni pubblicitari. Noi eravamo allegri senza motivo, componevamo frasi a casaccio come i bambini, avvicinando le parole solo perchè assieme suonavano bene. Quando luì scese dall'abitacolo ci accorgemmo che dal distributore arrivavava la musica. La musica!!!! "Parlami d'amore marilù". Faceva ridere quella voce lasciata a perdersi nell'aria e nella solitudine, buona solo per noi e per quei nostri cinque minuti da poco. Abbiamo ballato attorno all'automobile come non sappiamo fare. Abbiamo saltellato e girato, girato, girato sotto le luci al neon.

martedì 10 febbraio 2009

Omaggio (kitsch) a Sei Shonagon

Cose che a febbraio procurano la felicità:

Staccare dalla parete della cucina il calendario brutto della Cassa Rurale del Polesine (al quale ci si era rassegnati controvoglia) e appendere al suo posto il calendario di carta e listelle di bambù, regalatoci dal proprietario del Drago d'Oro. E' leggero e colorato male, le tabelline dei mesi sono stampate attorno alla ruota zodiacale cinese. Ad ogni segno è abbinata un illustrazione dell'animale corrispondente e la descrizione della sue qualità caratteriali e affinità astrologiche.
Cercare per casa guanti e sciarpa e non trovarli, quindi uscire in ritardo per non perdere il treno e scoprire che oltre l'appartamento c'è il sole. Arrivare in stazione sudati e contenti.
Cantare sotto la doccia Amore Disperato e riflettere su quale canzone sarebbe più opportuno presentare casomai si volesse partecipare ai provini i X-Factor.
Ordinare al telefono una pizza wurstel e patetine fritte mentre l'amica, a dieta, ha deciso di autoimporsi la margherita.
Dipingersi le unghie del colore sbagliato: fucsia con brillantini.
Guardare il ragazzo seduto in treno: ha i piedi appoggiati sul sedile di fronte, ma per evitare di sporcare i sedili ha infilato sotto le scarpe un foglio di giornale. Il braccio destro è piegato a sorreggere la fronte concentrata. Aguzzare lo sguardo e leggere il titolo del libro che lo assorbe: è Amleto.
Ricevere l'ultimo regalo di natale: un piccolo soprammobile di plastica trasparente su cui è disegnata l'immagine di un Gesù del Sacro Cuore. Alla base dell'icona una lucetta illumina la plastica di rosa e azzurro.

lunedì 26 gennaio 2009

sulla scrittura di blog

Sono le tre del mattino e non riesco a dormire. Stanca di guardare dal letto il mondo piatto fuori dalla finestra (geometria astratta di rettangoli di altre finestre illuminate e rispettive zone d’ombra, interessante magari per una mezzora ma non di più) ho deciso di cercare rimedio all’insonnia scrivendo qualche considerazione su ciò che per ora ho capito, o non ho capito, riguardo la scrittura di blog.

Leggere i blog altrui mi fa passare la voglia di scrivere. Scriviamo tutti alla stessa maniera, chi in una direzione chi in un'altra (le strade sono tre quattro al massimo, impossibile illudersi che esista reale varietà di stile o contenuti), usiamo tutti gli stessi usurati procedimenti retorici, ostentiamo tutti orgogliosamente la pochezza delle nostre ambizioni artistiche. Vige una sorta di compulsività comunicativa, come se esistesse qualcuno al mondo cui possa sinceramente interessare qualsiasi menata ci succeda. Da questo punto di vista mi sono sempre sentita abbastanza inibita, e difatti ho scritto con parsimonia, memore di Hemingway e del monito intelligentissimo posto in chiusura a “Morte nel pomeriggio”:

“Abbiamo visto passare ogni cosa e continueremo a vedere. La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo.”

La mia vita è eccezionalmente normale e normalmente eccezionale (chiasmo facile, ma tant’è), non credo meriti di essere narrata in ogni suo singolo istante. Ogni tanto capitano dei momenti in cui il poco o il nulla che succede mi lascia interrogativa o affascinata. Non riesco a distinguere cosa contengano di speciale, eppure li sento staccarsi nettamente dal restante fluire degli eventi, quasi appartenessero a una dimensione immobile, isolata e bloccata nel tempo. Li trasformo in parole per non dimenticarli e per aiutarmi a scendervi in profondità, scoprire il motivo della loro diversità. Poi leggo altri blog e vi ritrovo le mie stesse parole, i miei stessi moduli sintattici, le mie stesse intonazioni sospensive, e mi deprimo. Si è stabilizzato e diffuso una sorta di buoncostume narrativo spicciolo, e chi più chi meno vi siamo tutti inzaccherati. Impera il colloquialismo alla Baricco (cito lui come esempio celeberrimo ed esasperato): frasi spezzate, periodi brevi a chiudere in tono volutamente modesto ma brillante considerazioni più complesse e, nelle intenzioni, più profonde, frasi che iniziano con congiunzione, cumulazioni di sostantivi a formare lunghe liste delle spesa in cui confluisce con intento straniante il banale e il ricercato, il quotidiano e il dissonante, e via dicendo… Questi procedimenti vengono generalmente adottati ed apprezzati per la loro patina di modernità, ma di fatto siamo ancora fermi negli anni’60 (se non ancora più indietro). In essi si ritrova “il mondo discreto” di Calvino di “Cibernetica e fantasmi”, “il mare dell’oggettualità”, ma di quello che all’epoca sorgeva come orizzonte di contemporaneità oggi rimangono solo gli scarti sterili, ripetizione logora.

I tipi narrativi che ho individuato sono fondamentalmente quattro:

1) romantico scapigliato, attento al particolare banalmente evocativo, valori semplici e fede nei sentimenti (stile “that’s amore – findus” per intendersi, coi giovani precari boehemien a sorbire minestrone dai tetti di Parigi… sigh!), scrittura disinvolta con punte che vorrebbero porsi tra il lirico e il tragico ma a malapena raggiungono il patetico.

2) trasgressivo insofferente, ignaro di qualsiasi tipo di punteggiatura, grandi elenchi confusionari in cui si mescolano droghe leggere e squallore da provincia paranoica, pretese di recupero punk e maledettismo di seconda mano. Lo stravolgimento della sintassi, in Italia proposto dai futuristi cento (cento!) anni or sono, assunto a vessillo di post-modernità.

3) l’intimista simbolico, attento a registrare i piccoli eventi inespressivi con pretese significative, lessico introspettivo e intenzionalmente aereo, fragile, noiosissimo, memore di stereotipate levità giapponesi (dall’haiku a Banana Yoshimoto) senza grazia né acume. (e io sono qua dentro, lo so benissimo)

4) femminile con brio, ovvero le nipotine di Bridget Jones: resoconti di “esilarante” quotidianità, esasperazione comica di genere (mestruazioni, depilazione, sessualità), tratteggio di personalità marcatamente indipendente, stile “Lines Seta Ultra”: nessuna perdita potrà distoglierle dal tour in mongolfiera… (in mongolfiera ?!? ).

Le qualità di cui più si avverte la mancanza sono in generale consapevolezza e narrabilità. L’onnipresente ambizione artistica è ancora dominata dall’antidiluviano concetto di ispirazione come grazia che cade dall’alto, come sacro fuoco che muove le dita del “poeta” (che il supporto fisico sia poi una penna o una tastiera poca importa). Nessuno sembra riflettere sulla scrittura in sé, sulle sue modalità e funzioni, sugli obiettivi a cui la si vuole avvicinare. Si scrive a casaccio esattamente come si scriverebbe sul proprio diario. Niente di male se appunto si trattasse di un privato sfogo emotivo. Il problema è che si scrive invece con ambizioni e pose, censure e autocelebrazioni, perdendo l’unica buona qualità insita nella scrittura personale e ignorante, ovvero la schiettezza.

Non ho mai preteso di trovare l’Autore nel blog, ma non credevo nemmeno vi regnasse una tale e tanto desolante massificazione. Mi figuravo ingenuamente che chi non avesse proprio nulla da scrivere semplicemente non scrivesse (pia illusione). Ho cercato di spiegarmi il fenomeno come naturale dispersione implicita nei grandi numeri, ed ho provato allora a leggiucchiare i blog teoricamente più meritevoli, pubblicati e diffusi da editori e librerie. Un pochino poco di capacità retorica in più, ma fondamentalmente non ci si allontana dalla grande palude.

Questa mia riflessione ovviamente dev’essere intesa come il classico “fascio d’erba” (un paio di blogger in gamba per fortuna li conosco) , ma non credo che la generalizzazione possa scalfire i contenuti. Che altro? Certo sarebbe opportuno affrontare anche l’argomento “complimenti reciproci”, ma credo me lo terrò come jolly per la prossima insonnia.

sabato 10 gennaio 2009

collezione di tempo mangiato 2



Il tacchino


Patate (?)

Dolcetti tunisini

collezione di tempo mangiato

gnocchi

pasta


bacon

L'automobile

L’automobile è un isola asciutta in un mondo bagnato. Sono giorni che piove, e nonostante i pantaloni inzaccherati sono ancora contenta. E’ fastidioso ma fa bene. Sono seduta in macchina già da un paio d’ore, tutta stretta nel cappotto zafferano, la testa insaccata nella sciarpa. Attorno a me il parcheggio del distributore AGIP, furgoni in entrata e in uscita, operai che camminano guardandosi le scarpe, le facce incattivite dal freddo. Pochi passi per arrivare al Bar Ristoro, tappezzato all’interno dalle stampe ingiallite dei successi Ferrari. Ci sono già entrata per un caffé, ma non mi sentivo a mio agio e ho preferito tornare in macchina. Devo aspettare che Riccardo finisca il colloquio di lavoro, una prima selezione organizzata dall’agenzia in un palazzone fuori Modena. Dietro ai finestrini rigati di pioggia, oltre al palazzone, c’è solo un camion ungherese che sta manovrando, il Bar Ristoro grigio, sporco e giallo, e l’imbocco dell’autostrada. A tratti lo scricchiolio dell’acqua sul parabrezza si fa più intenso, schiacciante. Mi circonda. L’automobile è diventata la mia navicella, uscirne credo sia impossibile. Si è trasformata in un sottomarino, è una sonda infilata nell’umore del mondo, per poterlo spiare mantenendo una distanza impermeabile. Verso l’autostrada il traffico si rincorre in gorgoglii infiniti. Il rumore della pioggia sembra più reale, ma ogni tanto scompare sotto il muggito rugginoso dei TIR. Il cielo grandissimo è biancastro, ricorda quelle pareti lasciate a insudiciarsi e a invecchiare senza mai una mano di bianco.
Vicino al palazzone ci sono degli alberi: alcuni scuotono attorno le foglie rimaste appese ai rami. Li guardo attraverso il vetro deformato dall’acqua, dove le gocce sembrano affondare in una specie di superficie-pozzanghera, molle come plastica, e i profili delle foglie appaiono ancora più sgranati. Altri alberi sono già completamente spogli. Sono belli, neri e magri, impassibili. Senza foglie sembrano agitarsi molto meno. Credo che mi piacerebbe perdere le foglie: assecondare il vento che le strappi via una a una, osservarle dall’alto marcire nei tombini. E poi starsene muti e forti a trascorrere l’inverno, senza doversi preoccupare di sopravvivere. Sarebbe consolante. Gli alberi nudi come tanti asceti coscienziosi, finalmente affrancati da bisogni e passioni, monumenti di atarassia silenziosa e modesta. Dev’essere un sollievo lasciar frullare a terra l’ultima foglia.
Mentre penso a queste cose l’abitacolo s’è raffreddato. Riapro il libro e sempre più immobile continuo a leggere Proust.

mio nonno

Io mangio, bevo, poi al massimo dormo un ora in più così recupero.

Tas e mangia.

Fino al '600 gli anni duravano sei mesi.

Di quel che c'è non manca niente.

L'ultimo lupo mannaro l'hanno ucciso in Siberia nel '700. Aveva il corpo da ragazzo e la faccia da lupo. Poi si sono estinti. L'ultimo esemplare l'hanno imbalsamato e l'hanno esposto in una mostra. Chiaruttini ha la foto.

Quando gli arabi avevano una cultura importante in Italia c'era il ghiaccio fino a Genova.