Le zie sorridono e sembrano molto sincere. Sulla tavola di legno sbocciano da sotto i tovaglioli di carta le torte alla frutta. Si scoprono una dopo l’altra fiammeggiando scintille di confettura e colorante. Non sono molto grandi ma sono cinque, rosse e violacee come fiori laccati. I complimenti di rito, la stupefazione delle bocche allungate, la nonna vestita di nero sta già puntando i pasticcini, distratta poco o nulla dalla primavera della crostata. Anche gli zii sono sinceri: si addossano ai muri e aspettano il piatto di carta. Sorridono perché al taglio della torta è giusto che si sorrida, ma il sorriso gli viene male ed ha sicuramente meno denti di quello delle zie.
Tutto è talmente pronto che sarebbe facile non accorgersi della sua assenza. Ma la famiglia è una buona famiglia, e io mi offro per andarlo a cercare.
Lui ha quattordici anni e questi cinque anemoni di ribes e fragole sono il suo compleanno. Dalla taverna salgo le scale fino all’appartamento e lo trovo in camera. Lui è in piedi nella stanza dipinta di blu e azzurro, volta le spalle alla porta. Si gira e mi saluta ma continua a suonare. Sul letto e per terra stanno accampati i cugini più piccoli. Ce n’è uno grassoccio e occhialuto con in mano un paio di bacchette da batteria trovate chissà dove, che in casa sicuro una batteria non c’è. Un altro, non avrà più di sei anni, batte le mani sulla sedia di plastica verde. Il fratello minore è seduto su un letto ingombro di pupazzi, soffia timido dentro il clarinetto. Tutti a modo loro stanno suonando, o almeno provando a suonare. Lui non li guarda. E’ fermo davanti alla tastiera e alla finestra aperta. Osserva le nocche delle sue mani aprirsi e richiudersi sulle note che non sa leggere, ma che corrono in cerchio ancora una volta ancora una volta e più veloce di prima, contratto e dimentico ad un tempo. E’ il suo quattordicesimo compleanno ed è solo e accerchiato da una tribù di bambini che probabilmente non lo capiscono più, ma non se n’è ancora accorto o forse non gli interessa. Tutta la domenica a scorrere i tasti con la pazienza e il nervosismo del predatore. Aspetta insegue e riprende, ricominciare da capo, rilassarsi e ricominciare, più veloce. Scende a pranzo e poi risale per piantarsi dritto davanti alla tastiera mentre il vento entra lento nella stanza, e gli muove attorno la tenda come una medusa. Lui continua a darmi le spalle, dalla finestra aperta si spande tutto il bianco del muro di fronte.
lunedì 28 aprile 2008
M.
mercoledì 23 aprile 2008
ombre rosse
E’difficile scrivere nel pre-carbonara.
Riassumerò quindi velocemente dei pensieri di viaggio.
Un vetro rotondeggiante e/o molto sporco di sabbia può trasformare un regionale Bologna-Codigoro in una diligenza sperduta nel vecchio e farraginoso west. I paesaggi che attraversano il finestrino corrono in tondo, simili nel loro slittare curvilineo alle proiezioni di una lanterna magica. La luce fioca di aprile, un primo pomeriggio già intriso di tramonto, e l’Emilia intera è gia invecchiata di polvere di te. Binari morti e piccole stazioni perse nella prateria. In alcuni tratti la strada costeggia in lontananza la ferrovia. Un furgone bianco insegue un’utilitaria anch’essa bianca. E le proporzioni sono le stesse, quasi inalterato il sentimento a trascinare il moto: indiani e cowboy.
martedì 22 aprile 2008
la casa
Il paese stamattina era bello e grigio come sempre dovrebbe essere. Un paese dove c’è poco da fare, giusto il fiume da vedere. E da quando hanno spianato la boscaglia capricciosa di sambuchi e rovi, forse nemmeno il fiume. Camminando in piazza ho scoperto una palazzina che non avevo mai notato. Dalla facciata le sporge un piccolo balcone gonfio di autunno e piante sciolte dall’umidità, con una ringhiera rugginosa e panciuta, gli scuri gocciolanti di piogge decennali. Casa mia tra qualche anno avrà lo stesso sguardo assente e muto, come questa invecchierà in un’architettura chiusa in sé stessa. A meno che qualche facoltoso parrucchiere austriaco non vi elegga la propria residenza estiva.
Da piccola mi sdraiavo sul dondolo in cortile, ma all’incontrario. Incastravo le ginocchia sul poggiaschiena, la schiena magra entrava nel sedile di fili di plastica. Abbandonavo la testa ad oscillare penzoloni, i capelli che sfioravano l’erba. Da quella posizione guardavo il giardino e la facciata posteriore della casa, e la nuova prospettiva suggeriva verità insospettate. La casa soprattutto mi si svelava nuda e sorridente, come se a capovolgere il mio sguardo si rovesciasse anche a lei, lasciando cadere a terra l’apparenza solida e funzionale alla quale ero abituata. I muri ruvidi contro cui calciavo il pallone, le finestre da aprire con cautela e mai senza aver prima tirato la zanzariera, il basculante metallico del garage che a toccarlo ci si sporcava di bianco, tutte le espressioni quotidiane e meccaniche venivano a mancare, dileguate. Dell’intera struttura rimaneva poco più che un disegno bidimensionale, un trapezio chiaro nell’azzurro immobile dell’estate: una base larga che si allunga al cielo stringendosi via via, il tetto ridotto ad una V rovesciata. Nell’attimo che mi ci voleva per sistemarmi a testa in giù mi si apriva quello che credevo essere lo spirito originale dell’abitazione, uno spirito amichevole e fanciullo come i primi scarabocchi infantili. Tutto allora sembrava ridere, i denti delle inferriate arrossate e dipinte da poco, la geometria delle portefinestre, i balconi barocchi avvolti in spirali.
Sono passati più di dieci anni da quei pomeriggi e la vernice si stacca a scaglie sottili dalle ringhiere. Le piastrelle della terrazza si sono sollevate e il vento vi ha seminato il tarassaco, una fioritura selvatica e inquietante che col tempo inghiottirà anche noi, non fosse altro che noi ce ne andremo prima. Il gatto affila le unghie nel portafiori scavato nel tronco di un salice, il terriccio viene scagliato tutto attorno. La bora ha smembrato il riparo per i pettirossi, costruito da mio padre con la canna palustre a modello dei casoni dei pescatori. Anche alcune lastre del tetto sono state scalzate dal vento qualche anno fa. Quasi la casa avesse voluto avvisarci del naufragio. Nessun sorriso dietro le tende tirate, il dondolo ridotto a uno scheletro di ferro, la plastica dei sedili scomposta e mangiata dall’abbandono. L’orto è un campo di battaglia. Sul terreno venduto avrebbero dovuto costruire una villino ma i lavori si sono fermati prima di iniziare. E ora dalla finestra, tra me e il fiume, ci sono solo zolle scomposte e cataste di laterizi, qualche nastro plastificato di quelli che segnalano il cantiere. E noi proprio come naufraghi ancora ci abbracciamo a qualche soprammobile, a un portafoto o un quadretto appeso sulle scale per non abbandonarci alla corrente.
lunedì 21 aprile 2008
kebab
La luce entra gialla nella stanza. Sacra luce di primavera quando la primavera deve ancora arrivare. La migliore luce di primavera. Scende attraverso i vetri sporchi e mi tocca la faccia. E' la grazia divina, immobile e benevola.
Il ragazzo pakistano si è ritirato in cucina dopo avermi preparato il kebab. Sono sola, io e la luce gialla sui muri gialli. Siedo su uno sgabello zoppo e mangio.
Un boccone dopo l'altro. Patatine fritte e maionese.
Maionese e ketchup.
Salsa rosa.
La luce gialla sui muri gialli ha il sapore della salsa rosa.
Un boccone e ancora uno. Carne e spezie bizantine.
Insalata.
Carne.
Sono felice di una felicità rotonda come questo panino e non ho bisogno di nient'altro che della luce e della carne.
Un boccone lento dopo l'altro, e la musica. La cantante attorciglia parole impossibili. Musica orientale limpida e densa come questo momento, che si staglia netto tra i giorni migliori e i giorni peggiori, immerso nella profondità subacquea delle quattro del pomeriggio. Guardo fuori dalla finestra, soddisfatta come un pesce. I tigli si scuotono nel cielo con lentezza, alghe nella corrente.
Guardo le pareti. Ritagli di giornale appiccicati col nastro adesivo. Volti di giovani indiane, gli occhi neri neri che sorridono. I capelli lunghi intrecciati. Tre volti. Non i corpi, solo i volti. I ritratti tagliati alle spalle. Penso a quanto sia diversa l'iconografia pubblicitaria occidentale, alle pance nude tirate di Calvin Klein, agli sguardi lividi, alla pelle fredda e esposta, all'indifferenza luttuosa di certi occhi.
Una di queste ragazze sorride proprio davanti al mio naso.
E' giusto.
Io sono felice e lei sorride.
domenica 20 aprile 2008
in treno
non scrivo mai. ci sarà un motivo? e le volte che scrivo mi sputo addosso (come sto facendo ora), mi giro e mi rigiro sui miei passi. questa è la danza del serpente che viene giù dal monte, per ritrovare la sua coda che egli perse un dì. (buon titolo per un libro, nonostante il vago sapore allegorico nietschiano) (e mi scuso ma l'istruzione non sempre è cosa buona e giusta). non scrivo perchè non ho niente di proficuo da comunicare, e allora forse scriverò male sbeffeggiando grafie e punteggiature. scriverò statica senza comunicare nulla a nessuno.
ho visto tante cose ultimamente. sarà che spesso sono sola (sempre in mezzo ai 16.000 iscritti a lettere e agli altri migliaia di decinaia di migliaia di iscritti a qualsiasi altra facoltà, partito preso, alternativa di vita possibile e impossibile), o che spesso non sono ufficialmente da sola ma la mia interazione si rinchiude lo stesso avvilita su sè stessa e nella torsione con cui mi lacero le mani (che non so dove mettere). le guardano tutti le mie mani. tutti quelli con cui non sono. forse sono l'unica cosa che emerge dalla mia assenza. dita che torcono pieghe di pelle sulle nocche, slavate e ingobbite squamose come il dorso del coccodrillo.
ho le mani a coccodrillo.
non ci avevo mai pensato, ma non mi ripugna. è quasi simpatico anzi (ma forse è solo un moto d'orgoglio difensivo).
insomma mi aggiro per le aule di via zamboni e guardo la gente. ma guardarla troppo non sta bene, e allora ogni tanto guardo il soffitto che sembro un asceta della pausa caffè. sigaretta in una mano (coccodrillo) e biccherino di plastica nell'altra (mano coccodrillo) sospesa nell'estasi della parete increspata. dopo un po' neanche l'ascesi sta bene, e allora continuo a guardare la gente, che forse è più normale. magari maleducato ma normale (nor-male non-male). ho visto pantaloni cascanti e ciuffi ascendenti, praticamente una composizione in diagonale di gente diagonale. ovvero: semovente. perchè una diagonale per quanto ricca di espressività dinamica rimane una linea messa lì, e perchè le persone per quanto agitate stanno pur sempre bevendo un caffè.
io piantata in mezzo alle diagonali a meditare osservando i tubi ciccioni che escono dal soffitto. non ho voglia di scrivere del vuoto rotolante di certe menti, che tante certe cose si sanno, e soprattutto non mi motivano abbastanza. difatti non descrivo. o sì? potrebbe essere una via di mezzo accettabile la descrizione-trascrizione-documento? ho trovato: non le descrivo ma le testimonio (fatto!). insomma vedo tante cose.
sabato 19 aprile 2008
le farfalle nello stomaco
da poco ho iniziato a scrivere su un quadernetto (in copertina: dante che beve un mojito con la cannuccia a righine, degnissima rappresentanza) e continuerò a scriverci nonostante il blog, anche se in effetti quando ho qualche buona idea il quaderno non c'è mai.
cosa voglio da questa scrittura in bilico tra il pubblico e il privato? soprattutto voglio trovare stimolo nello scrivere. un cerchio che si chiude, e che non porta da nessuna parte, se non ad un ritorno spiraliforme sui propri passi. credo sarebbe già abbastanza poter immaginare un pubblico che non esiste, ma che mi sproni nel suo silenzio ad esprimere (esprimere cosa poi non ne ho idea). quando penso alla scrittura inizio a macerare, un po' come le foglie quando cadono nei tombini. mi imputrisco in pensieri già pensati e alla fine fumo una sigaretta e esco a comprare qualche verdura per fare il minestrone (somma panacea di tutti i mali).
ho deciso per il momento di accantonare questo tipo di girotondo sadico, anche se sicuramente a breve tornerò su proust e su hemnigway e su flaubert. che sono poi loro, e le poche cose che so di loro, a menarmi per il naso e farmi girare come una trottola su me stessa fino a che mi si piegano le ginocchia e casco a terra.
mi rendo conto di essere stata un po'troppo stucchevole (ma quando ho le farfalle nello stomaco va così, nulla da fare, divento d'annunziana), ed appunto un altra speranza che lego all'esperienza telematica-&-semisferica è relativa allo stile, che vorrei asciugare. so di essere ancora molto ingenua, rimpinzo la paratassi di aggettivi e parentesi (come questa), non riesco a focalizzare il nervo del discorso. anche se ad esser sinceri le parentesi di per sè non mi sembrano poi un gran dramma, ma solo perchè mi ricordano proust...
(sigh, non ne uscirò mai.)
vabbè dai, fine della trasmissione. tornerò sicuramente più scintillante stupendevole sana e salubre un altro giorno. (un giorno in cui magari non mi sveglio col pensiero che attraverso la parete a cui mi appoggio per leggere a letto qualcuno si è ammazzato).